giovedì 15 novembre 2012

C'è sempre stato, dunque... The End.

Mi è capitato anche oggi un sedicente cattolico “ben ferrato” che in un impetuoso riflesso pavloviano ha voluto a tutti i costi impartirmi la solita lezione: il peccato c'è sempre stato, dunque sarebbe inutile “scandalizzarsi” del marciume di questa società.

Sotto questo comodo sofisma il sedicente “ben ferrato” può poi proseguire nel dichiararsi sommamente indignato per alcuni precisi componenti secondari di detto marciume, minimizzando tutti gli altri e mal sopportando che non gli si dia immediatamente ragione su tutto.

La realtà è ben diversa, anzitutto per il fatto che il peccato non è inevitabile (e questo la Chiesa lo insegna perfino ai bambini). Anche il più incallito dei peccatori può -anche in modo scostante- rifiutarsi di aggiungere un'altra macchia alla sua anima, cioè può collaborare con la propria volontà (pur imperfetta) al disegno divino. E questo vale anche per una società.

Una società è “marcia” nella misura in cui il peccato è addirittura promosso e finanziato dalla legge. Dirsi che il peccato “c'è sempre stato” non è dare una risposta ma è solo un modo per eludere la domanda (dimenticando fra l'altro cosa dice la Chiesa in merito fin da quando è stata fondata). Che poi la società in cui viviamo promuova e finanzi molto di più che altre passate e presenti, è un dato di fatto che non si può coprire con paroloni gravi pronunciati con un vocione da professore pedante.

Ma il perno centrale di quel riflesso pavloviano era nello scaraventare addosso all'interlocutore il termine “scandalizzarsi”, carico di emozioni e di un'aura addirittura “liturgica”. Un'aggressione verbale condotta in modo raffinato e gentile, necessaria per evitare di andare al di là della frase fatta.

I cattolici “imborghesiti” amano vivere tranquilli. Scelgono dal menu dei neodogmi moderni quelli che più gradiscono, e li difendono a spada tratta perché hanno paura di fare la figura dei pirla quando vien fuori la coda di paglia. Per questo don Giussani augurava di “non stare mai tranquilli” (che è la stessa cosa di augurare di non essere come il fariseo in prima fila nel Tempio).

Il sedicente “ben ferrato” aveva certamente scelto dal menu il neodogma che aveva per descrizione: con questo sembrerete cattolici che si occupano delle cose importanti, sembrerete cattolici combattivi attenti agli obiettivi più famosi, sembrerete cattolici che sanno il fatto loro e che perciò possono guardare con sufficienza le discussioni che non riguardano il tema del giorno proposto dai telegiornali e soprattutto non dovrete affaticarvi la mente.

mercoledì 10 ottobre 2012

Spiderman e la vocazione

Un padre in lacrime che chiede: “chi sei tu?” E lui che dopo un attimo di esitazione gli risponde: “Spiderman”.

Un attimo prima quello stesso padre piangeva disperato, gridando al cielo una delle tante varianti della preghiera dei disperati: qualcuno faccia qualcosa. Preghiera che domanda senza sapere neppure cosa domandare, ammettendo dunque implicitamente la propria insignificanza di fronte all'universo (proprio da parte di chi fino a poco prima era carico di sicurezze sulla vita, strumenti per primeggiare, risorse da nababbo).

E un attimo dopo Spiderman prende coscienza della sua missione, pronunciando il suo nuovo nome. Come un monaco che compie liturgicamente la sua professione solenne. I poteri (sacerdotali?) di cui ora è dotato, non sono per sua comodità, non sono per le sue vendettine personali, ma sono per il popolo. Col celibato (dunque la castità) necessario per poter compiere la sua missione, poiché la vocazione non è un mestiere: il mestiere ti tiene impegnato negli orari di lavoro dei giorni feriali, la missione ti tiene impegnato tutte le ore di tutti i giorni di tutti gli anni.

C'è come un incomprimibile senso cattolico della vita che sbuca fuori quando si cerca di seguire le vicende della vita di un supereroe. Per questo al film Spiderman del 2012 hanno dovuto appioppare un finale sentimentalistico e anti-sacerdotale. Che, togliendolo, renderebbe il film più avvincente. Perché la storia di una vocazione è sempre irresistibilmente avvincente.

giovedì 27 settembre 2012

Chiedo preghiere

“Non serviam” è solo un risultato finale. Ma come è giunto Lucifero -intelligenza compiuta, mica un mortale capace di prendere fischi per fiaschi- a gridare “non serviam”? Una tristissima circostanza oggi mi ha fatto intuire qualcosa.

Ho scoperto con immensa amarezza che una mia amica si è infognata ancora una volta in un baratro da cui faticosamente l'avevamo tirata fuori più volte. Temevo una ricaduta ma cercavo di non pensarci, dicendomi che è inutile fasciare una testa ancora non rotta.

Temevo una ricaduta perché la volta scorsa qualcuno incautamente le aveva ricordato che stava uccidendo la sua stessa dignità. Lei, per tutta risposta, aveva gridato che non gliene importava niente della dignità, intendendo -ma non sapendolo esprimere- che percepiva come limitazione del proprio essere perfino il sentirselo ricordare.

Caduta a poco a poco nell'inganno di considerare libertà insindacabile i propri errori, è stata pronta a sputare deliberatamente sui propri talenti, sui propri affetti, amici e parenti, uno ad uno, sulla propria dignità, con tutte le logiche conseguenze che si affacciano alla finestra. Meccanismo che chiamerei incapricciarsi, perché non trovo una parola più adatta per definire quell'indebolirsi della volontà nonostante le frequenti, ragionevoli e riconoscibili possibilità di uscire dal tunnel. Meccanismo purtroppo oliato dalla debolezza di chi le stava vicino: i familiari non vogliono saperne, gli amici si sono stufati, il parroco è impegnato col consiglio diocesano e la recita dei giovani e mille altre cose, la folla di coloro che la ritengono già dannata è purtroppo in crescita.

Ripetute ricadute nel vizio significano che questo stesso meccanismo agisce sempre più forte, costando un prezzo sempre più alto (inclusa la propria dignità e, in futuro, la vita eterna), con la stessa dinamica di un drogato che si abbassa ad azioni sempre più turpi pur di procurarsi la dose quotidiana, pur dopo tentativi riusciti di disintossicarsi - tentativi sostenuti dalla sua sempre più debole volontà.

Lucifero non si è svegliato gonfio di superbia un bel mattino per proclamare “non serviam”. Benché il mysterium iniquitatis appartenga all'eternità anziché al tempo, riflettendo sul caso della mia amica ho l'impressione che Lucifero sia giunto al “non serviam” come per passi successivi, per scelte progressive, per incapricciamenti a catena fino al gran botto finale: rinunciare anche alla propria eterna felicità. Probabilmente con quello stesso tipo di smorfia furiosa e beffarda con cui lei la volta scorsa ci gridava: “chi sei tu per dirmi cosa è bene per me? sono io che devo decidere ciò che è bene per me”, e che oggi ha compiuto un altro passo ancora più giù nell'abisso.

In questa valle di lacrime è inimmaginabile il potere autodistruttivo di chi vuol gridare di non aver più dignità (finendo per convincersene). Lo scopo ultimo del Maligno (e di coloro che riesce a trascinare con sé) è l'autoannientarsi, possibilmente nella massima solitudine, magari addirittura coscientemente. L'immagine della superbia del voler essere “dio di se stessi” è solo un'immagine descrittiva e un po' asettica di quel concreto e rabbioso incapricciarsi a grandi passi verso il nulla.

Mai come in questo caso non ci resta altro che la preghiera. Nostro Signore ha personalmente esorcizzato e guarito, strappando al demonio una folla di anime. Bisogna solo bussare alla Sua porta finché, stanco delle nostre insistenze, guarisca Giuseppina dall'assurdo male di cui va orgogliosa, vincendo quel desiderio di guadagnare l'abisso, salvandole l'anima che attualmente è davvero “tra le più bisognose della divina misericordia”.

mercoledì 4 luglio 2012

O tempora, o mores!


Il soft-power hollywoodiano sta aggiornando la feature principale dei supereroi del XX secolo.

sabato 23 giugno 2012

Ciel-leaks

È passato più di un mese e mezzo da quando trapelò la lettera riservata che don Carròn scrisse al Papa, su richiesta di quest'ultimo, a proposito della nomina del nuovo vescovo di Milano. Chi conosce il movimento di Comunione e Liberazione non troverà alcuna sorpresa in quello che c'è scritto. Chi la legge con attenzione scopre che il giornale scandalistico-lamentoso che l'ha pubblicata ci ha fatto un gran favore.

Don Carròn, «ben consapevole della responsabilità» che si assume di fronte a Dio e al Papa, risponde a quest'ultimo accusando sinteticamente e senza giri di parole:
  1. la frattura tra “sapere” e “credere”, tipica della modernità, e la riduzione del cristianesimo ad “intimismo” e “moralismo”
  2. la crisi vocazionale “affrontata in modo quasi esclusivamente organizzativo”
  3. il problema dei libri liturgici che spezzano “l'unità tra liturgia e fede”
  4. l'insegnamento teologico che si “discosta in molti punti dalla Tradizione e dal Magistero”
  5. la “lettura sociologica stile anni '70” della presenza dei movimenti ecclesiali
  6. il “neocollateralismo” sinistrorso della Curia
  7. il “malinteso senso del dialogo” e “l'autoriduzione dell'originalità del cristianesimo”
Ora, sembra il programma di esercizi spirituali, oppure il materiale di lavoro per la scuola di comunità, fate voi: sono esattamente i problemi del cattolicesimo italiano (non solo ambrosiano), anche se altrove vengono espressi con parole diverse. E don Carròn, nell'elencarli, indica come uomo capace di riconoscerli e affrontarli Angelo Scola.

Deludendo molti infaticabili lobbisti dei sacri palazzi, Benedetto XVI ha scelto proprio Scola - e non è affatto detto che lo abbia fatto anzitutto per seguire il parere di don Carròn.

Il cardinal Scola è già al lavoro. Tra poco meno di quattro anni e mezzo compirà i 75 anni, età in cui il Diritto Canonico gli impone di dare le dimissioni da vescovo diocesano. Affrontare seriamente problemi come quelli elencati richiederebbe almeno un paio di generazioni di duro lavoro; Scola ha solo il tempo di dare un colpo di timone verso la direzione giusta.

Accusarlo di “ciellinizzare” la diocesi ambrosiana è lo stesso atteggiamento di un drogato che grida di essere sano e felice. In Italia, infatti, è largamente diffuso il vizietto di pensare che non conti l'uomo ma l'etichetta politicoide che volente o nolente gli è stata cucita addosso dai media.

mercoledì 30 maggio 2012

Il lavoro non è una merce

La Chiesa ha sempre insegnato che il lavoro, in quanto prosecuzione dell'opera creatrice del Signore, ha per ciò stesso dignità. Ed ha insistentemente raccomandato, in particolare negli ultimi secoli, la dignità della “mercede agli operai”.

Queste due asserzioni si scontrano frontalmente con la mentalità moderna. Società in cui il lavoro è funzionale alla paga, e la paga è proporzionale a ciò che “richiede” il mercato, ossia -generalmente- la moda del momento. Per questo vediamo mestieri particolarmente stupidi (se non addirittura contrari alla dignità e alla vita) fruttare valanghe di soldi a persone che si ritrovano al posto giusto quando qualche moda lo esige.

L'idea che il lavoro serva solo ad estrarre denaro è spaventosamente gravida di conseguenze. Per esempio, trasforma del tutto il modo di lavorare rendendo gli uomini schiavi del proprio mestiere e schiavisti dei loro eventuali sottoposti. Un po' come nei film di Fantozzi, dove è considerato “vita” tutto ciò che non riguarda il lavoro, dove si entra in ufficio all'ultimo minuto e si esce a razzo appena suona il fine turno.

Quell'idea, poi, trasforma il lavoro in merce, spostabile, ripianificabile, surrogabile o sostituibile, comprabile laddove costa meno. Non mi riferisco solo alla famigerata delocalizzazione (far produrre a cinesi e indiani a un decimo della paga che dovrebbero dare a te). C'è anche il caso tipico in cui da un giorno all'altro ti “ripianificano”, ti “spostano” in altro settore, facendoti lasciare nelle mani di qualcun altro (magari un incompetente, o uno che odia ciò che facevi) tutto quello che avevi messo in piedi, “tanto ti pago, dunque ti sposto ogni volta che qui si decide”.

Se il lavoro non ha la dignità di prosecuzione dell'opera creatrice del Signore, il lavoratore è solo un contenitore di lavoro, da misurare continuamente, riprogrammabile a piacere: tant'è che in ambiente industriale non si parla più di “lavoratore” ma di “risorsa”. Una macchina, di cui magari si può anche tollerare temporaneamente qualche difetto (consuma troppo, mi costa troppo, al primo guasto la butterò via), di cui ci si può sbarazzare anche se sa fare bene il suo mestiere.

Gli uomini sono uguali per dignità, non per capacità. È inevitabile che uomini diversi, anche se aventi lo stesso identico curriculum di studi e di lavoro, diano sul lavoro risultati diversissimi. E le capacità non sono necessariamente legate all'urgenza del momento stabilita dal consiglio di amministrazione. Ma da quando ci si è dimenticati che si lavora per la maggior gloria di Dio, il lavoro è diventato una merce su cui speculare e la dignità è diventata un mero benefit espresso in parametri mondani.


domenica 8 aprile 2012

L'ultimo esorcismo

Si tratta di un filmetto della categoria “spaventa-stupidi”, al pari dei vari Nightmare, zombies e tutto il resto. Il loro filo conduttore è che un entità maligna invincibile compie la solita serie di stragi per tentare di emozionare gli spettatori. La particolarità di L'ultimo esorcismo è nello spunto: ad un brillante pastore protestante, che non crede all'esistenza del demonio, viene richiesto un esorcismo.

Il film sembra un'involontaria apologia del cattolicesimo, per vari motivi. Anzitutto per il fatto che al di fuori del cattolicesimo il Male appare invincibile.

Il pastore protestante, protagonista del film, è troppo “moderno”, troppo brillante per pensare che esista il diavolo. Al punto che accetta di prendere in giro quei fedeli che in buona fede si rivolgevano a lui. Il protestantesimo terminale è una religiosità dello star bene, con tanto di ricetta di cucina tra un alleluia e l'altro.

Il protestante è abituato ad autoaccusarsi di essere peccatore. Ma quando si tratta di chiedere concretamente perdono, non lo fa, non lo sa fare, non lo ha mai fatto (al contrario, il cattolico, con la confessione frequente, sa accusarsi senza ridurre tutto ad un fatalismo, ed è perciò capace - quantomeno per l'abitudine frequente - di domandare perdono).

Il demonio protagonista del film è ovviamente “molto potente”. Nonostante ciò, commette un errore clamoroso: rivela subito il proprio nome (esattamente ciò che serve ad un vero esorcista per scacciarlo via). Ma agli autori del film questo non interessa: l'importante è costruire emozioni e farlo così come la moda del momento comanda. Anche quando involontariamente il film dimostra che i due peggiori errori che si possono fare a proposito del demonio è o di pensarlo invincibile, o di pensarlo inesistente.

giovedì 8 marzo 2012

La gallinella cattiva

Nel rivedere il solito Wise Little Hen (il primissimo cartone animato del 1934 in cui compare Paperino) osservavo come la gallinella saggia fosse, prima che “saggia”, anzitutto cattiva. Certamente il maiale e il papero meritano una punizione per la loro pigrizia (grandiosa la scena del club degli sfaccendati che al termine non era stato ancora riparato). Ma che ad operare la punizione sia proprio colei che ha organizzato il lavoro, è un autentico vendicarsi, è un conflitto di interessi. Evidentemente la richiesta iniziale di aiuto non prevedeva una terza possibilità: o lavorate con me o mi vendicherò crudelmente.

Se la gallinella fosse stata davvero saggia si sarebbe limitata ad ignorarli così come hanno fatto i pulcini, evidentemente dotati di un animo più umano: seguono, obbediscono, lavorano, ricevono. La gallinella invece no: ha conservato in cuore il desiderio di vendetta (cosa non può essere una vita intera fondata su una vendetta ancora non portata a termine!), ha aspettato il momento in cui avrebbe utilizzato il proprio successo per umiliare i due pelandroni e quando tutto è finalmente realizzato, quando a tavola c'è abbondanza (cosa non può smuovere una simile immagine in tempo di crisi economica!) fa un cenno per dichiarare le proprie intenzioni (sostanzialmente ignorato dai pulcini), si alza (si erge autonomamente a giudice del bene e del male) e va a dare ai due perdigiorno l'umiliazione definitiva: olio di ricino. I due faranno eternamente ammenda prendendosi a pedate a turno.

La favoletta è teologicamente errata poiché pur essendo vero che all'inferno ci vanno solo quelli che non desiderano seriamente la salvezza, è anche vero che i salvati non trarranno giovamento e neppure piacere dal fatto che qualcuno si danni in eterno. La favoletta della gallinella saggia tenta di insegnare che chi si dà da fare non solo ottiene una duratura abbondanza a tavola, ma può permettersi adeguata vendetta contro i pigri che non le hanno dato il proprio contributo. Come se fosse più attraente il vendicarsi che il nutrirsi. La gallinella, infischiandosene del loro destino, emula l'omicida Caino che chiede retoricamente: sono forse il guardiano di mio fratello?

I due scansafatiche non hanno consumato l'olio di ricino (era olio di castoro, ma fa lo stesso). La feroce vendetta della gallinella resta perciò incompiuta. Per di più i due hanno accettato l'umiliazione, comprendendo di aver sbagliato: ma piuttosto che domandare misericordia, decidono di far giustizia da soli, prendendosi a turno a pedate. Il loro comportamento è quello di Giuda Iscariota: pur riconoscendosi peccatori, sono incapaci di chiedere perdono: pensano di poter essere loro a stabilire quale sia la grandezza massima perdonabile del male che si può compiere, e sono già certi di aver oltrepassato quel limite.

È una tentazione tipica perché l'uomo, nel rendersi conto di aver peccato ancor più gravemente di ciò di cui si era in precedenza pentito, tende a prendere atto del proprio limite nel modo peggiore: stabilire di essere imperdonabile, convincersi di aver peccato talmente tanto che nemmeno la divina misericordia può chiudere un occhio. Oppure, in versione più blanda, convincersi che per domandare perdono occorra chissà quale impossibile “preparazione”, tale da non aver mai più bisogno di perdono dopo. Il papero e il maiale, per ciò che hanno mostrato nel cartone animato, rappresentano bene coloro che hanno sempre qualche scusa pronta per evitare di accedere al sacramento della confessione.

La gran fortuna della cattiva gallinella (e soprattutto dei pulcini) è nel fatto che i due perdigiorno non hanno reagito con la violenza e lo sciacallaggio, come avviene nella realtà piuttosto che nelle favole. Come tutte le favolette “politiche”, il messaggio deve necessariamente censurare qualche importante aspetto della realtà.

martedì 14 febbraio 2012

Stalinisti sinceri a tavola

Dementij Trifonovic' Getmanov si trova a cena con degli amici a casa della famiglia di Nikolaj Terent'evic'.
La vita di Dementij Trifonovic' era piuttosto povera di avvenimenti esterni. Non aveva preso parte alla guerra civile. La polizia non lo aveva perseguitato e il tribunale dello zar non lo aveva mai condannato alla Siberia. Le relazioni che teneva alle conferenze e alle riunioni di partito abitualmente le leggeva. Leggeva bene, senza errori, con espressione, benché le relazioni non fossero stese da lui. A dire il vero leggerle era facile, le stampavano a grossi caratteri, a spazi larghi, e il nome di Stalin spiccava tra le righe per il carattere scritto con inchiostro rosso.

Un tempo era stato un giovanotto sensato, disciplinato. Voleva studiare nell'Istituto di meccanica, ma lo mobilitarono negli organi di sicurezza; ben presto divenne guardia del corpo del segretario del Comitato regionale. Poi fu notato e fu mandato a studiare alla scuola del partito, mentre nel frattempo veniva preso a lavorare nell'apparato, prima nel reparto di istruzione ed organizzazione del Comitato regionale, poi nella sezione quadri del Comitato centrale. Dopo un anno divenne istruttore della sezione amministrativa dei quadri e, subito dopo il '37, segretario del Comitato regionale del partito (come si dice, il padrone della regione).

La sua parola poteva decidere il destino del cattedratico di una università, di un ingegnere, di un direttore di banca, di un presidente dell'unione professionale, dell'azienda contadina, della messa in scena di un'opera teatrale.

La fiducia del partito! Getmanov conosceva la grande importanza di queste parole. Il partito gli dava la sua fiducia! Tutto il lavoro della sua vita, in cui non c'era stato posto per grandi libri, né per scoperte famose, né per lotte epiche, era stato un lavoro enorme, costante, perseverante, capillare, perennemente intenso, insonne. La ragione principale e superiore di questa fatica risiedeva nelle esigenze, negli interessi del partito. La principale e superiore ricompensa di tutto questo lavoro era la fiducia che il partito stesso gli concedeva.

Le sue decisioni in qualsiasi circostanza, si trattasse della sorte di un bambino messo in orfanotrofio, della riorganizzazione della cattedra di biologia, dello sgombero del locale della biblioteca, di un laboratorio che produceva materiali plastici, dovevano essere compenetrate dello spirito e degli interessi del partito. Dello spirito di partito doveva essere compenetrato il rapporto del dirigente nei confronti della sua attività, del libro, del quadro, e perciò, per quanto potesse essere duro, egli sapeva senza incertezze rinunciare alle sue abitudini, staccarsi dal libro preferito. Nel caso in cui gli interessi del partito fossero in contrasto con le sue personali convinzioni e simpatie, Getmanov sapeva che esisteva un livello più alto di giudizio, la cui sostanza consisteva nel non avere umanamente né propensioni né simpatie in grado di porsi in contrasto col partito; ciò che è caro e prezioso per il dirigente, deve essere caro e prezioso in quanto esprime lo spirito del partito.

Qualche volta i sacrifici che faceva in nome dello spirito di partito erano crudeli e sofferti. Non c'erano più né compaesani, né insegnanti ai quali in gioventù era stato debitore di molto; non doveva più tener conto né dell'amore né della compassione. Parole come “ha deviato”, “non ha appoggiato”, “ha rovinato”, “ha tradito”, non dovevano più incutere timore... Lo spirito di partito si manifesta quando il sacrificio, un bel giorno, non è più necessario, e non lo è perché i sentimenti personali come l'amore, l'amicizia, la solidarietà, non possono sopravvivere naturalmente se sono in contrapposizione allo spirito di partito.

La fatica degli uomini che hanno fiducia nel partito passa inosservata; ma questa fatica è immensa, consuma mente e anima, totalmente. La forza del dirigente di partito non ha bisogno del talento di uno studioso, dell'ingegno di uno scrittore. Si dimostra superiore al talento e all'ingegno. La parola direttiva, risolutiva di Getmanov era ascoltata avidamente da centinaia di persone che avevano il dono della ricerca, del canto, del narrare, benché Getmanov non solo non sapesse cantare, suonare il pianoforte, organizzare spettacoli teatrali, ma non fosse neppure in grado di capire fino in fondo e gustare opere scientifiche, di poesia, di musica, di pittura... La forza della sua parola era risolutiva perché il partito gli affidava i suoi interessi nel campo della cultura e dell'arte.

E la somma di poteri che deteneva, quale segretario regionale dell'organizzazione di partito, difficilmente avrebbe potuto averla un tribuno, un pensatore.

A Dementij sembrava che l'essenza più profonda del concetto “fiducia del partito” fosse incarnata nel pensiero, nel sentimento, nell'atteggiamento di Stalin. Nella fiducia che egli dava ai suoi compagni d'armi, ai commissari del popolo, ai marescialli, risiedeva appunto l'essenza della linea del partito. Gli ospiti parlavano soprattutto delle gravi responsabilità che attendevano Getmanov. Capivano perfettamente che lui avrebbe potuto aspirare ad una destinazione più importante, e non era per niente raro che uomini della sua posizione, passando ad incarichi bellici, divenissero membri del Consiglio di guerra, e talvolta persino del Consiglio supremo.

Getmanov, dopo aver ricevuto la nomina al corpo d'armata, si era inquietato ed era rimasto deluso; apprese però da un amico dell'ufficio organizzativo del Comitato Centrale che ai vertici non erano affatto scontenti di lui, non era il caso di preoccuparsi. Allora, cercando di consolarsi, cominciò a trovare i lati positivi della sua nomina, perché, in fondo, il destino della guerra è in mano ai carri armati, spetta a loro l'intervento decisivo.

Al corpo carristi non viene mandato chiunque; è più facile che un membro del Consiglio di guerra venga inviato presso un'armata insignificante di un settore di secondo piano.

Con questa scelta il partito esprimeva la propria fiducia. Tuttavia egli era amareggiato, e gli piaceva molto dirsi, in divisa, davanti allo specchio: “Membro del Consiglio militare d'armata, commissario di brigata Getmanov”.

Chissà perché il comandante del corpo d'armata, il colonnello Novikov, suscitava in lui la massima irritazione.

Non l'aveva ancora visto, ma tutto ciò che Dementij sapeva e veniva a sapere di lui, non gli piaceva.

Gli amici che gli sedevano accanto a tavola, capivano il suo umore, e tutto quello che dicevano a proposito della sua recente nomina mirava a fargli piacere.

Sagajdak affermò che la cosa più probabile era che lo inviassero con il suo corpo a Stalingrado; che il comandante del fronte, il generale Eremenko, il compagno Stalin lo conosceva ancora dall'epoca della guerra civile, fin dai tempi della prima armata a cavallo, e che spesso parlava con lui per telefono, e quando il generale era di passaggio per Mosca, il compagno Stalin lo riceveva!... Di recente il comandante era stato nella dacia del compagno Stalin, nei pressi della capitale, e la loro conversazione era durata due ore. È davvero una gran bella cosa combattere sotto il comando di un uomo che gode di una fiducia così profonda da parte del compagno Stalin.

(...)

Sagajdak disse con tono triste: “E dov'è che ti puoi dimenticare della guerra... I nostri figli e i nostri fratelli vanno in guerra da ogni parte, dall'ultima capanna di kolchoz fino al Cremlino. La guerra è grande, è mondiale”.

“Il compagno Stalin ha il figlio Vasilij, che è pilota di un caccia, poi c'è il compagno Mikojan il cui figlio combatte pure in aviazione, ho sentito che anche Lavrentij Pavlovic' ha un figlio al fronte, solo che ora non so in che arma. Inoltre Timur Frunze è sottotenente, sembra in fanteria... Poi a quella Dolores Ibarruri il figlio è morto nei pressi di Stalingrado”.

“Il compagno Stalin ha due figli al fronte”, corresse il fratello della padrona di casa. “Il secondo, Jakov, comanda una batteria d'artiglieria. Più esattamente, lui è il primogenito. Vashka è il più giovane e Jakov il più vecchio. Un ragazzo sfortunato, quello: è caduto prigioniero”.

Tacque, accorgendosi di aver toccato un argomento del quale, secondo l'opinione dei compagni, non bisognava parlare.

Desiderando rompere il silenzio, Nikolaj Terent'evic' senza mezzi termini buttò là avventatamente: “Tuttavia i tedeschi lanciano manifestini menzogneri, come se Jakov Stalin collaborasse...”.

Ma il deserto intorno a lui si fece ancora più inquietante. Parlava di quello che non bisognava ricordare né per scherzo, né sul serio, ma che conveniva solo passare sotto silenzio. Così, chiunque si indignasse pubblicamente per le voci sulle relazioni tra Iosif Vissarionovic' Stalin e la moglie, compirebbe un'inavvertenza non minore di quella di chi le ha diffuse. Sono discorsi tabù. Getmanov si rivolse d'un tratto alla moglie e disse: “Anima mia, lì dove il problema è preso in mano da Stalin ed è preso con tanta energia, i tedeschi hanno il fatto loro”. Nikolaj Terent'evic' cercò con lo sguardo Getmanov, preoccupato. Era però chiaro che a quel tavolo non sedeva gente insulsa, e non si erano trovati per fare di un'osservazione maldestra una storia seria.

Sagajdak cominciò a parlare con intonazione benevola e da compagno, sostenendo dinanzi a Getmanov Nikolaj Terent'evic': “Ecco, questo è giusto, e allora noi siamo impegnati a non commettere sciocchezze nel nostro settore”.

“E a non chiacchierare a vanvera”, soggiunse Getmanov. Nel fatto che avesse espresso quasi apertamente il suo biasimo, e non avesse taciuto, era manifesto il suo perdono a Nikolaj Terent'evic', e Sagajdak e Mashuk annuirono in segno di approvazione.

Da parte sua Nikolaj Terent'evic' sapeva che la sua uscita inopportuna, stonata, sarebbe stata dimenticata, ma sapeva d'altronde che non lo sarebbe stata completamente. Una volta o l'altra il discorso sarebbe caduto sui quadri, su una missione particolarmente delicata, e davanti al nome di Nikolaj Terent'evic', Getmanov, Sagajdak e Mashuk avrebbero annuito, ma qualcuno avrebbe sorriso impercettibilmente, e alla domanda più precisa di un interlocutore pedante, la risposta sarebbe stata: “Forse un tantino superficiale”, sottolineando il “tantino” con l'estremità del mignolo...
(citazioni tratte da: Vita e destino, di Vasilij S. Grossman, Jaca Book, 1998/2, pp. 100-103 e 106-107)

venerdì 10 febbraio 2012

Frattaglie / 12

Ancora altri pensierini sparsi e disordinati, tanto per fare un po' di pulizia tra le bozze del blog...

“Tu sei un po' come sua madre”, le dissi distrattamente. Lei si lusingò e dedusse che era ora di riappropriarsi di quella sua “figlia”, sfrenando il suo latente complesso da crocerossina. Guaio che va avanti ancor oggi. Mai sottovalutare il peso delle parole.

Mi accorgo che su un certo problema ho agito allo stesso modo di coloro che considero miei “padri” nella fede. Così, rifletto su certi ripetuti appelli, nelle prediche domenicali, all'unità e alla collaborazione. Eppure, in un cristianesimo normale, si finisce senza troppo sforzo ad avere un metodo comune nell'affrontare i problemi. La necessità di fare appello alle volontà per ottenere ciò che è frutto di una fede normalmente vissuta è un segnale assai allarmante.

Dalla crisi economica, tanto più drammatica quanto più ci si rifugia nei giudizi assorbiti passivamente da TV e stampa (che hanno la stessa rilevanza della musica sul Titanic che affonda), si salverà solo chi è disposto ad investire nel “capitale umano”. Quella ingenua baldanza dei cosiddetti “ciellini” dovrebbe essere maestra. Invece viene interpretata (tanto per cambiare) come una dichiarazione politica passeggera e secondaria. Triste, quest'epoca, in cui ci tocca faticare per dimostrare la positività del reale.

La società umana è sempre stata piena di quindicenni pigri e arroganti, serviti, incensati e riveriti, che non sanno dir altro che “cheppalle, cheppalle”. Senza un'educazione di popolo il degrado è matematicamente assicurato. Ma anzitutto occorre convincere il popolo che educare non significa istruire.

C'è un motivo misterioso per cui un cantante deve “avere un look”. La sua faccia non cambia nulla rispetto a ciò che canta. Eppure, senza “look” personalizzato, non riesce a vendersi. Dunque, nell'acquistare la sua musica, si paga anche per la sua immagine. Compriamo composizioni musicali associate a immagini. Compriamo facce, culi, cosce associate a canzonette che tra un anno avremo già dimenticato.

Essere cattolici oggi è qualcosa di avventuroso. Ti senti un Indiana Jones preso a fucilate da tutte le parti, così, come se niente fosse. Per esempio basta pronunciare qualche elementare concetto di Catechismo, che subito ti danno dell'integralista, del fanatico, del superbo, del nazista, del leghista (addirittura)... ti dicono “mi fai paura” o “mi fai schifo”, ti dicono (proprio loro che sputano sulla Chiesa) che parlando così infanghi la Chiesa (curiosa espressione davvero: la Chiesa danneggiata dal suo stesso Catechismo? ma di quale chiesa parlano?)

Quando sento parlare di “integralista cattolico” mi vien da ridere. Un “integralista cattolico” molto noto è stato san Pio da Pietrelcina: aveva una fissazione invincibile nel vivere il cattolicesimo nel modo più integrale e integralista possibile. Il calendario cattolico è una ponderosa lista di ferocissimi “integralisti”, gente che ha preferito rimetterci la pelle (e talvolta nei modi più orrendi possibili) pur di non scalfire minimamente il cattolicesimo che vivevano. Eppure oggi “integralista cattolico”, misteriosamente, non è un complimento o un augurio: il relativismo ha cambiato persino il significato delle parole.

Sorprendente che esista gente che “crede nella politica”. Persino in quest'epoca di tuttosommato, madai, infondoinfondo c'è gente che spera nell'azione politica di qualche personaggio politico, azione diversa dal grattar via dalla carcassa italiana le ultime briciole.

Il gergo ciellino si è formato perché gli amici del don Giussani avevano preso davvero sul serio le cose della vita. Al punto da scegliere via via le parole più adatte, come se avessero dichiarato guerra alla fumosità, come se avessero a cuore il trasmettere con precisione anche il particolare più secondario. Per esempio il verbo “imbattersi” lo sento utilizzare praticamente solo all'interno del movimento. Sta diventando desueto. Sentitelo, quant'è denso: “imbattersi”. Si capisce benissimo che chi s'imbatte in qualcosa, non è passivo rispetto a ciò che gli accade, non resta indifferente, non sta nel mondo dei sogni.

venerdì 27 gennaio 2012

Educati al politeismo mutante

Un giorno, da ragazzini, scoprimmo che per sembrare adulti occorreva esprimere preferenze sulla musica. C'erano i cantanti del momento, i gruppi più famosi, i divi più certificati, e noi tutti si sceglieva tra quelli. Era importante - era fondamentale per non essere presi per stupidi - dichiarare la propria somma devozione per qualche riconosciuta divinità della Hit Parade somministrataci dalla televisione. Gloria e onore nel momento in cui primo tra tutti i compagni di scuola qualcuno annunciava l'ultimo capolavoro di una delle divinità dell'olimpo musicale (che in quanto tale avanzava di capolavoro in capolavoro), onta e ignominia quando qualcuno lasciava anche soltanto intendere il proprio ateismo o agnosticismo rispetto alle sacre istituzioni mediatiche.

Disegnavamo improbabili chitarre elettriche accanto a improbabili moto da cross nei nostri diari scolastici, ci dichiaravamo appassionati batteristi, bassisti, chitarristi pur non avendo mai nemmeno posseduto uno strumento, inventavamo nomi e stemmi per il gruppo che in quel momento sognavamo di fondare, invidiavamo i riccastri figli di papà che potevano permettersi di comprare l'ultimissima Hit anziché aspettare il momento buono per copiarsela. Grosso modo i nostri discorsi, oltre che sul Divinissimo Calcio di Serie A, rispecchiavano sempre questo stesso schema.

Fin da bambini siamo stati educati a questo politeismo perennemente mutante. Anch'io ho fatto parte, con convinzione, di quei credenti instancabilmente fervorosi. Ero addirittura più praticante degli altri, al punto che decisi autonomamente di dedicare qualche ora di un pomeriggio di una giornata festiva solo all'ascolto del mio Gruppo Preferito, quello che nominavo con orgoglio e decisione precedendolo dalle parole “mi piace”. Avrei cantato con loro, scrutandone e meditandone i testi, in poltrona, col volume alto quanto basta (i miei erano assenti) per compenetrarmi in quella musica che tanto aveva segnato la mia vita, e partecipare della loro gloria.

Solo che quella pianificata liturgia di adorazione e meditazione, nonostante tutta la minuziosa e riuscita preparazione, mi rese improvvisamente cosciente di quanto fosse stupido e inutile il mio “credo”.

Don Giussani era solito sfidare ad andare fino in fondo nelle proprie convinzioni. Ad un giovane sedicente marxista regalò dei libri di Marx, invitandolo a prendere sul serio ciò in cui credeva, così come invitava ad andare alle radici della propria fede protestanti ed ebrei. Solo un idiota potrebbe dedurne un inutile relativismo; i diretti interessati, invece, sfidati da un'umanità eccezionale, nella verifica della propria “fede” scoprivano che non risolveva le domande ultime sulla vita, sulla realtà, sul destino.

Fu così anche per me, solo che non ci fu bisogno di un don Giussani a regalarmi la Sublime Discografia Completa del Gruppo. A trasformarmi fu il tentativo di prendere sul serio, anche solo per pochissime ore, il mio sacro Gruppo. Che dopo pochi minuti mi aveva già stufato. Quella musica sortiva in me solo gli effetti indesiderati: noia, distrazione, stanchezza, tristezza... Quei testi, a leggerli attentamente, erano solo giochi di parole, senza altri profondissimi significati che quelli attribuiti dalla mia fantasia a qualche versetto non ben compreso. L'accurata preparazione liturgica all'ascolto non mi lasciava alibi.

Per un po' di tempo professai ancora quella “fede”, anche se solo esteriormente e con sempre minor convinzione. Diventando adulto (per l'anagrafe), sono stato sommerso da tante altre divinità del sacro olimpo contemporaneo salvo poi scoprire ogni volta la stessa dinamica che avevo verificato da ragazzino: gli idoli, non appena li prendi sul serio, non appena li poni davanti alle elementari esigenze del cuore, si rivelano inutili e pesanti fardelli, funzionali - quando va proprio bene - a distrarti, cioè a farti passare dalla realtà al sogno, al nulla.

Ancora oggi mi meraviglio dell'abominevole quantità di idoli circolanti, dai nomi altisonanti (talvolta perfino nomi cari del lessico cristiano), esigentissimi e severissimi, presentati dal mondo con un'aura seducente e accattivante che termina pressoché nello stesso istante in cui li vai ad onorare con qualche abbondante manata di incenso.

domenica 22 gennaio 2012

Frattaglie / 11

Butto sul blog anche questi altri vecchi pensierini sparsi e disordinati, visto che non c'è tempo per allungarli fino a diventare una pagina intera.

Quando si tratta di obbedienza, è molto facile e comodo accettare l'idea di spendersi al massimo per un progetto che suona come grandioso. È come se con l'obbedienza si entrasse in possesso del progetto (questo è vero anche quando i termini obbedienza e possesso sono da intendere in senso cristiano). Lo squinternato operaio che sciopera per diritti altrui è mosso pressappoco dalla stessa determinazione del novizio che si fa in quattro per il superior maggiore mollaccione. La differenza tra idea e ideale sta nel fatto che l'idea è una fabbricazione umana.

Matteo si lamenta: nessuno studiava, eppure bocciavano solo me. Nessuno ci fa caso: sembra una lamentela così normale, così ordinaria, così sacrosanta... Eppure, seguendo la stessa logica, si potrebbe dire: siccome penso che tutti siano ladri, allora è stato ingiusto punirmi quando ho rubato io.

In autobus parlano di vacanze. Sciorinano nomi di città straniere come se stessero risolvendo un cruciverba a tema geografico. Parlano di paesaggi cittadini, fingendo di non sapere che si tratta solo di cemento, vetri, calcestruzzo, laterizi, tubi al neon. Vedere nuovi posti significa più o meno guardare cementi e insegne luminose, addentrarsi da clienti nel mercato del turismo che ti vende un panorama (magari persino naturale). Al fondo c'è una curiosità passeggera, una vanità: tant'è che il turista, al ritorno a casa, ha bisogno di riposarsi.

Comprare regolarmente la confezione di caramelline di cui vado ghiotto serve perché la tentazione della gola è (in questo caso) più blanda della tentazione della superbia (mi sentirei più santo di un rigoroso monaco stilita del deserto se mi accorgessi di riuscire con la mia sola forza di volontà a fare a meno per un mese di quelle caramelline).

Da quando ci si è “eroicamente” liberati dei lacciuoli della religione, finalmente si possono elargire sentenze dogmaticamente definitive come questa: “la paura di amare a volte è la causa della fine di una storia”. Siamo nell'epoca degli “a volte”, nell'epoca del “tuttavia”, nell'epoca del “ma comunque”, nell'epoca del “ma anche no”. Nell'epoca in cui meno si ha da dire e più si parla (e stampa). La lingua italiana è affondata sotto un diluvio di ma, tuttavia, però: ad ogni espressione deve necessariamente corrispondere una frase che la controbilanci.

Per andare precisi, sulle cose della fede, bisognerebbe parlare solo per dogmi. Ma la lingua parlata non è precisa come la lingua della matematica. E l'animo umano, statisticamente, è poco propenso ad accettare correzioni precise e fondate.

Si lamentano dei loro acciacchi, come se fossero “punizioni” inflitte da un Dio vendicativo e pignolo, dimenticando che sono invece le scientifiche conseguenze del peccato originale (l'inimicizia col Creatore implica necessariamente l'inimicizia col creato: sudore della fronte, malattie, travaglio del parto e tutto il resto). Solo chi ha gli occhi bene aperti sull'infinito può arrivare a capire che la malattia è un'opportunità e che l'opportunità va sfruttata e che per farlo non bastano logiche tipicamente umane. L'alternativa è maledire tutto e tutti e sfruttare la propria condizione per incensare il proprio ego.