sabato 28 marzo 2015

La lavatrice

All'età di tredici o quattordici anni mi venne una strana fissa. Mi sedevo sul bordo della vasca da bagno, accanto alla lavatrice, e restavo lì per trenta, quaranta minuti meditando... il ticchettio del timer e il funzionamento della lavatrice. Le rare volte che fui scoperto dai miei, non ebbero nulla da ridire. E fu un bene, perché - ancor oggi mi sembra incredibile a dirsi - fu un'esperienza istruttiva.

Non so dire come cominciò la cosa e nemmeno all'epoca sapevo spiegarmi come mai mi risultasse attraente stare lì assorto senza annoiarmi. Ma a poco a poco entravo mentalmente nel funzionamento della lavatrice. La pompetta che spruzza acqua nelle vaschette del cassetto del detersivo. Il motore del cestello che inverte la direzione dopo quindici secondi di pausa. Il frizzare dell'acqua scaldata dalla resistenza sotto il cestello. L'azione della pompa di svuotamento. Lo sforzo iniziale del motore che passa da fermo a centrifuga in pochi istanti.

Scoprire a poco a poco il funzionamento della lavatrice mi insegnò molto. Dal punto di vista tecnico, per lo più di astrazione. Per esempio: procedure apparentemente semplici che comprendono in realtà una scaletta di operazioni da completare con accuratezza prima di poter proseguire. Processi svolgibili in parallelo e processi da effettuare esclusivamente in serie. Il diverso livello di energia richiesta dalle singole operazioni, e dunque il “picco” di elettricità necessaria a garantire il corretto funzionamento in ogni momento. Le operazioni effettuate alla cieca, come ad esempio quella della pompetta che miscelava il detersivo mandandolo dalla vaschetta al cestello non aveva modo di misurare quanto ne era rimasto, e perciò la necessità di dirigere il getto d'acqua in modo da coprire tutta la presunta area di carico. La sincronizzazione delle operazioni per evitare interferenze o perdite d'acqua. La “responsabilità” delle singole operazioni nei singoli pezzi. E - uno dei temi più affascinanti - l'ingegnerizzazione della lavatrice in modo che anche il guasto più improbabile non cagionasse pericoli per le persone.

Tutto questo, al di là di considerazioni elettriche, idrauliche, strutturali, vale anche in tanti altri campi. Per esempio anche il girare un buon film richiede tutta una “struttura” di produzione (per “parallelizzare” parecchie operazioni) oltre che un dettagliato e convincente piano (non solo la sceneggiatura), aggiungendo la serietà dei singoli nel far bene la propria parte (una sbavatura sulle luci di una scena secondaria toglie il possibile status di “capolavoro”), più operazioni da effettuare alla cieca perché sarebbe troppo costoso o poco pratico misurare, quindi l'utilizzare tutte le risorse (umane e non) senza strafare, e poi lo “stare nel budget”...

Da decenni c'è una lavatrice in tutte le case. È un oggetto talmente familiare che non ci facciamo più caso. Io ci feci caso. Dopo una decina di sessioni, finalmente realizzai di aver capito quello che c'era da capire e non fui più attratto dalla lavatrice in funzione. Capii quello che la scuola prima e l'università poi non sarebbero mai state in grado di insegnarmi. Vi fui sommerso da nozioni prima e dopo, e fui anche un pochino introdotto in qualche modo alla creatività (che è un talento che ha bisogno di massicce dosi di osservazione del reale). Ma poche cose nella mia vita mi hanno insegnato tanto quanto quella lavatrice, la mia migliore lezione di vita prima di incontrare il movimento di Comunione e Liberazione.

Non credo sia un'esperienza ripetibile. Per me è andata bene la lavatrice, per qualcun altro potrebbe essere il traffico ferroviario, il robottino aspirapolvere, addirittura le classifiche del campionato di calcio.

Da ragazzino mi incantavo a esaminare il quadro con tutti i numeretti delle squadre. Il campionato, cioè ogni squadra affronta in “andata” e in “ritorno” ognuna delle altre, ed ogni giornata è fatta in modo che nessuna squadra resti a riposo, ed il campionato è fatto in modo da evitare doppioni. Così tentai di costruire un mio campionato, giornata per giornata, riempiendo un'agendina e scoprendo un sacco di cose che non conoscevo. Non scoprii combinatorie e fattoriali, ma riuscii a intuire che certe operazioni si potevano meccanizzare: un computer avrebbe potuto calcolare tutte le possibili combinazioni e riuscire a inventare un calendario di campionato facendo in modo che non ci sia più di un derby nella stessa giornata, che non ci siano troppe partite “facili” nella stessa giornata, che non ci siano scontri diretti nelle prime giornate ma si addensino verso la fine...

Visto che i miei tentativi andavano a vuoto (dopo la prima giornata era pressoché impossibile rispettare quei vincoli), lo organizzai a eliminatorie. Naturalmente vinse l'Inter, e non perché fosse scritto sempre in caratteri maiuscoli. Tiravo un dado e assegnavo i goal. Fu sufficiente barare poche volte per far vincere l'Inter. E anche qui mi si ponevano nuove categorie di problemi: come simulare eventi, cioè come estrarre numeri ragionevolmente casuali che complicassero abbastanza le tentazioni alla disonestà? Cosa fare se ci si accorge troppo tardi di errori nella pianificazione di un calendario? Come si fa a presentare affidabilmente un progetto resistente agli intoppi?

Al di là della tecnica queste domande davano idea del gusto di un lavoro ben fatto, “a regola d'arte”, quello di cui essere fieri, “l'ho fatto bene perché volevo un buon risultato”: non era più creatività e ingegno, ma era un insieme di cose buone difficili da definirsi a parole (che si apprendono per osservazione di fenomeni apparentemente banali e di meccanismi ripetitivi). Almeno finché non si faceva davvero propria l'idea del lavoro come prosecuzione dell'opera creatrice di Dio (Dio come vertice di ogni giustizia, misericordia, amore, ma anche come vertice di ogni ingegneria, ogni architettura, ogni progettazione, ogni sapienza, ogni bellezza...).

domenica 22 marzo 2015

Autoimpegnati

Tutto cominciò incontrando (apparentemente per caso) un anziano sacerdote dopo parecchi anni che ci eravamo persi di vista. Mi chiese come stavo e gli risposi che era un periodaccio. Da ciò - e dal fatto che qualcuno doveva averlo pregato caldamente di aiutarmi - dedusse che avevo bisogno di una qualche “forte esperienza di fede”[1] e, del tutto ignaro del fatto che mi accostavo con frequenza ai sacramenti e che ero in qualche modo invischiato con Comunione e Liberazione, decise di farmi fare tale “forte esperienza” con un movimentino giovanilistico ecclesiale locale di cui lui era uno dei capi rispettati.

Un po' per non deluderlo, un po' per curiosità, un po' per la convenienza di allontanarmi da casa per qualche giorno, accettai di fare un ritiro in montagna con lui e quel suo gruppo di ragazzi, più due anziane suore e un giovane sacerdote religioso. L'età media dei ragazzi era sui venti-venticinque anni, gli adulti sopra i trenta erano una decina compresi i consacrati. In tutto saremo stati una cinquantina. Ci ospitava una casa di spiritualità (cioè un alberghetto gestito da suore) in un luogo ameno di collina alle spalle di un paesetto di campagna.

La prima cosa che mi colpì di quelle decine di ragazzi fu il notare lo sforzo che facevano per tenere a freno la volgarità. Ma la prima impressione che mi stimolò a indagare meglio fu il non riuscire a distinguere tra i “militanti” e gli “invitati”: appena giunto lì, infatti, capii subito che il ritiro era evidentemente inteso a reclutare nuovi adepti (che perciò non dovevano notare la gerarchia interna), oltre che a fungere da avanzamento di carriera per alcuni “novizi”. Il sacerdote che mi aveva invitato era sempre stato alquanto reticente a rispondere a domande anche molto blande: si diceva sicuro che quei giorni mi avrebbero fatto bene, che mi avrebbero dato nuova carica, e che mi dovevo fidare e ascoltare e partecipare e bla bla bla.[2] Mi intrigava il notare come fosse stato così accuratamente pianificato il voler frustrare la curiosità di chi -come me- avrebbe voluto identificare rapidamente i militanti per fare qualche domandina distratta ma precisa ai più ciarlieri tra loro allo scopo di capire dove andavano a parare.

C'è una linea molto sottile fra la sacrosanta discrezione e la ridicola mania di segretezza. La virtù della discrezione può essere coltivata solo da coscienze limpide e con consolidata convinzione dei propri giudizi. La discrezione è un soddisfare ordinatamente le legittime curiosità, è il dire solo ciò che c'è da dire, è il prendere sul serio l'interlocutore e la sua vera necessità di sapere, mentre la mania della segretezza è un voler rispettare un programma, un frustrare le attese per far crescere la sete degli indottrinandi, in fin dei conti una forma di menzogna.[3]

Non ebbi occasione di parlar molto nei primi giorni visto che la scena era tutta occupata dagli avanzanti di carriera. Ma dalle mie rare e sintetiche battute qualcuno dei capi credette di aver scoperto nel sottoscritto un ottimo elemento da promuovere al più presto entro i loro ranghi. Ma non seppero propormi altro che il prendermi numerosi e gravosi impegni con loro.

La spiritualità contemporanea viene sempre proposta come un fardello: vuoi essere dei nostri? vuoi fregiarti della tale etichetta che qui da noi suona elegante? impegni settimanali, più impegni mensili, più impegni stagionali, più impegni annuali, e poi impegni personali, impegni comunitari, impegni auto-organizzati, e un sottinteso obbligo di favorire in ogni modo quelli dello stesso club. In mancanza di una presenza, in mancanza di qualcosa che già ti ha sconvolto la vita, si sentono costretti a proporre una ricetta spirituale - magari condita anche con ottimi ingredienti, però non è che una qualsiasi pietanza diventa automaticamente saporita nel momento in cui ci aggiungi la Nutella. Tanto più se era a base di pesce.

In tutta la loro sincera buona volontà, non sapevano propormi altro che il darmi da fare con loro, considerando alquanto secondario ciò che di buono avessi vissuto in precedenza. Che è l'espressione esattamente opposta a quella di Comunione e Liberazione: il giovanissimo don Giussani lo chiariva dicendo che se Cristo c'entra con tutto, allora c'entra anche con cose come la matematica. Se non è così, allora la fede diventa un “contenuto” con cui “programmarti” la testa, cioè un elenco di cose da fare e da dire, e da non fare e da non dire.

Dopo tre o quattro volte che ci siamo scritti e invitati reciprocamente (e inutilmente), ho perso i contatti con quei bravi ragazzi. Uno degli avanzanti di carriera si stava sganciando dal gruppo perché aveva finalmente capito che un'altra avanzante di carriera (che gli interessava a scopo fidanzamento) non ne voleva sapere.


1) Nelle sagrestie moderne il termine “esperienza” indica l'effettuare una qualche attività chiesastica per poi dichiararsene entusiasti.

2) Patetico epilogo del cattolicesimo postconciliare: dover adoperare strategie pastorali praticamente identiche al reclutamento delle sette o al marketing piramidale.

3) Un ciellino che ti parla di cose di fede ha un solo motivo per tacerti temporaneamente il fatto che è ciellino: la tua scomposta reazione pavloviana che ti fa rigettare istintivamente qualsiasi cosa che abbia anche lontanamente l'etichetta di “cattolico” o di “ciellino”. Un ciellino che invece ti infila il nome di don Giussani ogni due frasi, commette lo stesso errore ma dal versante opposto.

sabato 7 marzo 2015

Una prima impressione a caldo

Più che una “carezza”, quella di oggi è stata una sferzata (come si poteva anticipare già dalla sorridente ma allarmata lettera di don Carròn) e non possiamo dire di non essercela meritata (i giussanologi e i cielloti, professionisti del “carisma” e della “autoreferenzialità”, sono stati serviti). E fa anche più male perché proveniente proprio dall'imbarazzante Papa di cui tanti “autoreferenziali” si son prodigati a difendere anche gli scivoloni.

No, non credo che il declino del movimento sia dovuto all'assenza di don Giussani, ma a quell'istituzionalizzazione (abbracciata dai più come un sacramento: la “spiritualità di etichetta”) grazie alla quale non ci piovono più addosso molotov e diffamazioni.