lunedì 2 gennaio 2023

Il limite fondamentale degli anime e manga

Dopo aver abbandonato a metà l'ennesimo anime sopravvalutatissimo da un pubblico sempre più intontito ho di nuovo un'irrefrenabile voglia di lamentarmi dell'industria anime-manga.[1]

Il problema nasce nel fatto che è un'industria. Cioè qualcosa in cui detterà legge ciò che si vende meglio. E quindi le circostanze possono affossare un'opera tutto sommato buona, o far salire alle stelle un'opera mediocre perché sul mercato in quel momento erano tutti più mediocri. (Sembra quasi parlare della scuola, o per certi versi dell'università, o di quella giungla comunemente denominata mondo del lavoro…)

Un mangaka spara un'idea ambientativa iniziale,[2] ci costruisce attorno dei personaggi, e fa tutti gli scongiuri quando va dall'editore perché ha il terrore di sentirsi dire: “dal prossimo numero chiudiamo, hai buone idee ma non riesci a seguire la nostra linea”. E così deve inventarsi di volta in volta qualche colpo di scena, qualche mistero segreto e misterioso, qualche cliffhanger per tener alta l'attenzione dei lettori e la benevolenza dell'editore. E così l'arco narrativo iniziale, che si sarebbe felicemente concluso in una mezza dozzina di episodi, una decina al massimo, vede susseguirsi l'introduzione di nuovi personaggi, l'introduzione di complicazioni della trama, l'introduzione di contorte psicologie di personaggi primari e secondari per giustificare allungamenti di brodo, l'introduzione di recap e ricordi e interminabili dialoghi pseudofilosofici, l'introduzione di segreti misteriosamente segretissimi che prossimamente verranno svelati… Figuratevi quando l'editore acconsente all'introduzione di elementi di magico, psicologico, pseudoreligioso, horror, e (purtroppo c'è da vendere anche nel mercato americano) di fan-service LGBTP*, SJW, anticattolicesimo d'accatto,[3] più il dotare i protagonisti-ragazzini di mentalità da quarantenni stagionati e riccamente acculturati.[4]

Alla casa editrice non interessa il contenuto della storia. Interessa solo monetizzarla, estrarre soldi. E questo già ha incancrenito da più di mezzo secolo i manga, “costretti” a inserire fan-service (cioè immagini sessualmente stuzzicanti[5] ma del tutto inutili ai fini della trama, della caratterizzazione, del valore complessivo dell'opera) a tutto spiano, anche nelle serie per ragazzi,[6] come il sopravvalutatissimo anime di cui sopra, che conteneva inutili allusioni sessuali (per di più riguardo a minorenni).[7] Valgono come fan-service anche tutti quei prevedibili e stantii cliché per vendere gadget, pupazzetti, merchandising in generale: un personaggio pelosetto - meglio ancora se del cast protagonista - consente di stuzzicare i furries[8] e di vendere ancor più gli immancabili peluche.

Così la tipica serie manga - e il suo corrispettivo anime quando viene animata con un minimo di fedeltà - è fatta di uno o due episodi “esplosivi” iniziali, quindi uno svolgimento che a null'altro prelude se non un'infinità di allungamenti di brodo, di aggiunte di pretesti, contorsionismi, forzature maldestramente celate da rivelazioni di super segretissimi segreti misteriosi, Deus ex machina per aggiustare il tiro qualora stesse cominciando ad andare nella direzione giusta, spiegazioni di cose appena inventate (techno-babble in tutte le salse). Per poi concludere con poco meno di un colpo di accetta quando la direzione editoriale si sveglia con la luna di traverso e decide che è ora di concludere.

Le serie meno peggiori, dunque, sono fra le serie anime create ex novo, cioè con un progetto iniziale preciso, una storia lineare, uno svolgimento proporzionato. Ma vengono generalmente annacquate dalla cadenza settimanale della trasmissione degli episodi perché la direzione editoriale possa alterare in corso d'opera lo svolgimento, e lanciarsi nei deprecabili vizi sopra citati, cioè allungare il brodo e alterare lo scenario per facilitare la vendita di gadget. Negli anime dove si menzionano le difficoltà del produrre anime si insinua che la reazione degli spettatori darebbe al team di produzione spunti per correggere la rotta strada facendo… ma anche questo è fan-service, solo più sopraffino.[9] Che un episodio non dia reazioni entusiasmanti, è poco rilevante rispetto alla pianificata vendita di dischi blu-ray e di merchandising.

Certo dev'essere frustrante, in corso d'opera, sentirsi gridare dal capo: “ehi, questa robaccia si vende bene, allunga subito la trama! Ti avevano detto 12-15 episodi, ora il management ce ne chiede almeno 24! Anzi, facciamo 36!” È il destino di tanti ragazzotti sognatori, cresciuti a merendine, anime e manga,[10] decisissimi a lavorare nel campo,[11] pronti ad accettare paghe da fame e orari massacranti, e scoprirsi trentenni a non aver messo nulla da parte e ad essere stati sostituiti da altri più giovani, più in salute, e non ancora in burn-out.[12]

Si potrebbe obiettare che alle case editrici si può benissimo presentare un intero manga già completo, in cui ogni capitolo contenga una parte proporzionata della trama anziché arzigogoli e acrobazie dipendenti dall'umore lunatico dell'editore. Ma all'editore non piacerà troppo una simile idea, perché ciò che sulla sua scrivania gli può sembrare qualcosa di ben scritto e promettente, in fase di avanzata pubblicazione può rivelarsi una rogna da gestire. Metti che stai pubblicando una serie d'azione che contenga la scena di un'esplosione di un reattore nucleare… e ti scoppia il caso Fukushima. L'editore non ha tutti i torti nel pretendere di poter modificare la trama (o concludere anticipatamente… o allungare il brodo): il problema è che è già abituato ad abusare di questo potere. E se la storia preconfezionata sta vendendo bene, vorrà già prenotare una seconda stagione, in cui dovrà succedere questo e quello, i personaggi dovranno adeguarsi ai desiderata politici, woke, gender, e altre mode.

Comporre un intero manga senza la supervisione editoriale (che infliggendoti determinate scelte se ne prende un po' la responsabilità) implica partire avendo le idee chiare su come si racconta una storia. Idee che non tutti hanno - specie questi autori giapponesi bravissimi a disegnar colpi di scena, eccellenti nel progettare misteri segreti e misteriosi, ma talmente abituati a farsi dettar legge dai capi da essere incredibilmente incapaci di scrivere una storia coerente, equilibrata, sensata, gustabile fino alla fine. Non hanno mai letto la Flannery O'Connor quando dice che aveva appena deciso che il personaggio aveva una gamba di legno, e già ne intravedeva gli spigoli del carattere, già sapeva che il personaggio lo aveva trasformato in un feticcio e che lo considerava un lasciapassare perpetuo. O quando dice che i personaggi delle sue novelle non li “costruisce” ma li “segue”, li osserva. E soprattutto non hanno mai letto le novelle della O'Connor fermandosi a riflettere sull'escalation col botto finale. Novelle in cui non c'è una sola sillaba superflua, in cui ogni pagina mette a poco a poco il carico da novanta sulle precedenti.

Per essere buoni scrittori occorre essere anzitutto buoni lettori. Direi che in questo i giapponesi falliscono miseramente, perché aver fruito per tutta una vita di anime e manga li fa rarissimamente emergere come autori.[13]

Per produrre un manga coerente (e ancor più in caso di anime) occorrerebbe non dipendere da soggetti esterni. Cioè lavorare in proprio finché l'opera non è perfettamente delineata. Cioè costruire per bene personaggi, trama, ambientazione, “segreti”, ben prima di cominciare a scrivere la sceneggiatura.[14] Dopodiché allestire un episodio “zero” da non pubblicare,[15] in cui includere la logica dei “segreti” svelati successivamente, e presentare - anche solo parlandone - tutti i personaggi (e i legami che saranno oggetto di future allusioni). Quindi lavorare sugli episodi “uno” e “due” assicurandosi che vi siano almeno accennati tutti i personaggi che compariranno successivamente e tutte le situazioni che introdurranno apparenti cambiamenti nella trama (non è che al ventesimo episodio ti inventi che “c'era sempre stata una guerra”… L'ultima cosa che vuoi rifilare al lettore o spettatore è una novità appena improvvisata).

Chi ben comincia, è già a metà dell'opera. Perciò questo “ben cominciare” deve consistere nell'aver sempre le idee chiare, fin dall'inizio, di cosa si sta descrivendo (attenzione, non “scrivendo” ma “descrivendo”) e di fare il primo buon passo iniziale (cioè usare gli episodi “uno” e “due” non per raffazzonare colpi di scena galattici come esca per i lettori, ma per partire col piede giusto).[16] Negli episodi successivi la storia andrà distribuita in modo proporzionato: quando sai cosa c'è da raccontare, puoi anche abbozzare in anticipo i contenuti di ogni singolo episodio, conservandoti l'opportunità di piallare eventuali difetti prima di finalizzare la storia. Infine può cominciare la realizzazione vera e propria, disegnando e applicando i dialoghi.[17]

Più di un editore rifiuterà di avere a che fare con un'opera già completa.[18] Qualcuno troverà mancanze vistose, altri troveranno elementi che richiedono urgente modifica.[19] Ma l'autore deve avere anche il fegato di proporre l'opera con la formula del prendere o lasciare, a costo di pubblicarsela a spese proprie (il che richiede tenacia e soprattutto soldi) perché ogni volta che ti fai straziare l'opera in nome di una possibilità in più di pubblicarla, ti sei giocato non solo un po' di dignità ma anche di creatività.


1) Come tutti i miei rant, anche questo è una paginata interminabile. Trattandosi di un blog - cioè con un pubblico che non si sa se, quando e quanto leggerà - non riesco a fare a meno di aggiungere precisazioni, chiarimenti, considerazioni. Ogni tanto ci si lasci gridare: abbasso la sintesi, viva la logorrea.

2) Ci sono autori che riescono a sparare una “grossa idea iniziale” perché tirano direttamente fuori i propri torbidi interiori. Come un'autrice di una truce storia fantasy a base di maghi, demoni e magie, in cui pressoché tutti i personaggi rappresentano o una fase della sua vita (come la tredicenne impacciata), un suo ideale (come il bel protagonista in giacchetta e auto vintage), un suo familiare (come il mago capoclan in cui raffigurare il padre importante ma assente)… Il manga, in sé, al di là della cura maniacale nei dettagli disegnati, non è molto avvincente (e comunque sa spesso di allungamenti di brodo) ma ha avuto il suo piccolo successo (e il fedele adattamento anime) perché i personaggi non erano tagliati con l'accetta.

3) Come quella vecchia serie ambientata in Brasile, gettonatissima in Occidente solo perché entro il secondo capitolo faceva una sgangherata critica a certo cattolicesimo salottiero.

4) Come in certi libelli settecenteschi dove coltissime pastorelle discettavano di massimi sistemi con mandriani filosofi. Solo che stavolta è produzione giapponese.

5) Il motivo principale per cui raramente consiglio un anime o manga (o addirittura ne menziono dettagli senza indicare il nome dell'opera) è che il lettore-tipo si soffermerebbe anzitutto su ciò che gli stuzzica i soliti istinti, sulle scene più superficiali, sulla pretesa di valutare l'opera secondo la coincidenza coi propri strambi gusti del momento. Ma anche no, grazie. Tenetevi pure i vostri infantilismi modello Pokémon e One Piece, tenetevi pure i vostri pornetti travestiti da subcultura orientale, vi meritate davvero di “appassionarvi” a robaccia così stupida.

6) A quanto pare il tipico lettore-spettatore giapponese prova una sensazione simile al piacere sessuale quando vede qualche personaggio imbarazzato per questioni di pudore o di sessualità, tanto più se quelle questioni non c'entravano nulla con la storia raccontata e con la morale dell'opera.

7) Da decenni ai piani alti c'è un intensissimo lavorìo per sdoganare la pedofilia (proprio mentre i più sembrano ancora ufficialmente condannarla), ma ai piani bassi - come la tipica casa editrice giapponese che lamenta qualche Grande Morìa delle Vacche - si sa bene che a spendere una fraccata di soldi in gadget e merchandising (e acquisto degli originali delle opere anche dopo averle già seguite per intero) sono proprio i soggetti che faticano a tener a freno le proprie fantasie. È come quando un obeso compra un aggeggio da tremila euro beccandosi una cocacola in omaggio, senza la quale l'acquisto sarebbe stato incredibilmente “in forse”. E così nella tipica casa editrice si saranno detti: che c'è di male a mettere un pochino di fan-service in modo da sfangarla anche nel prossimo trimestre?

8) I soggetti che si travestono da animali sembrano dotati di un vasto campionario di esecrabili vizietti.

9) Ad esempio nelle varie Genshiken e in Shirobako. In quest'ultima si fa anche notare che nell'imminenza del finale di una serie, il direttore artistico inventa una vaccata del tipo “oh che bello il sentimento di amicizia”, per tirare disperatamente a riva una serie che brancolava nel buio da tempo. Un po' come le arzigogolate del parroco che non riusciva a trovar modo di concludere l'interminabile omelia domenicale.

10) Mi suscita una notevole ammirazione l'aver sempre notato in tutte le produzioni anime e manga, il sottile insegnamento di buone norme di civiltà - i protagonisti, salvo qualche eccezione nelle scene che devono far ridere, sanno rivolgersi agli adulti e ai superiori in modo formale, seguono buone norme di igiene, guidano con prudenza, mangiano frequentemente pasti genuini, ben preparati, anzi, amano cucinare e senza strafare… E risuona come un sacrificio il non poter seguire igiene e dieta sana, ed emerge come fastidioso o deprecabile chi non si attiene all'etichetta. Perfino quelle sempre più rare volte in cui un soggetto fuma.

11) Mi ricordano i tipici adolescenti italiani che dopo aver sprecato tutta la propria giovinezza su stupidi videogiochi, decidono eroicamente che vogliono diventare programmatori di videogiochi, per poi scoprirsi incapaci alle superiori e di buttarsi su qualcosa di “facile” al momento di scegliere l'università. Si ritrovano quindi trentenni, con un titolo di studio misero, ad accorgersi finalmente di aver bruciato pressoché tutto il loro tempo libero sui videogiochi senza riuscire a diventare almeno programmatori di serie B.

12) L'industria anime giapponese è un tritacarne come pochi altri. Il paradosso è che è proprio il massiccio turn-over a evitare di far la fine degli sviluppatori software, che al burn-out ci arrivano attorno ai quarant'anni, in genere troppo tardi per riciclarsi altrove.

13) Sono incredibilmente poche le produzioni anime o manga degne di essere definite belle storie. Anche quelle di maggior successo poggiano infatti sull'aver girato e rigirato attorno a qualche idea brillante, ma non sono memorabili. Ad esempio Code Geass affascina per la strategia militare e il problem solving (seppure debitamente inquinati da puntuali e inutili colpi di scena), ma per il resto è un elenco di storiette adolescenziali banali cucite insieme alla buona. Ed anche Shingeki no Kyojin, che a detta del suo stesso autore doveva trasporre la questione del bullismo, diventa vittima del suo stesso successo con infiniti allungamenti di brodo e patetiche divagazioni pseudofilosofiche.

14) La O'Connor potrebbe non essere del tutto d'accordo ma qui parliamo di opere da vedere più che da leggere. E cioè che prima di essere realizzate visivamente devono essere raccontate (nel senso di preparare una sceneggiatura). E parliamo di autori dilettanti o comunque non eccelsi, che in ogni momento della produzione dovrebbero aver ben chiaro dove andare a parare anziché dover decifrare ogni volta da zero un qualche concetto astratto.

15) Nulla vieta che un episodio “zero” venga pubblicato in futuro come bonus track ma la sua realizzazione serve anzitutto a consolidare le idee all'autore.

16) Ricordo una serie anime fantascientifica in cui nel primo episodio un super mega mostro irrompe in casa di una ragazza in un remoto grattacielo - guarda caso una espertissima di armi e indagini, era la figlia del capo della polizia, mica la tipica italiana che rosica per non aver avuto almeno una decina di Like sul suo ultimo TikTok - e la aggredisce mentre questa si sdocciava. Ma poi misteriosamente scappa via senza ammazzarla. E lei, solo un pochino spaventata, comincia ad indagare per fermare il mostro. Segue quindi una ventina di puntate dove il mostro compare, ammazza un sacco di gente, e scompare, e nel frattempo si accumulano segreti su segreti, misteri su misteri, e l'incredibile coincidenza che nessuno ostacola la protagonista. È letteralmente il peggior inizio di storia che si potesse immaginare, anche in vista della prevedibilissima rivelazione che il mostro e la ragazza abbiano un qualche legame. Non è uno spunto di una storia, è solo un fan-service con zero spunti.

17) Disegnare solo dopo aver ben chiari i contorni della storia è meno complesso di quel che sembra ma richiede costanza e visione d'insieme. Anche un mediocre artista ha sempre le idee chiare su cosa deve contenere l'opera. Ad un grande artista l'opera quasi sempre “sfugge di mano”, suo malgrado, fluisce interamente senza accurate pianificazioni. Ma anche un dilettante ben determinato e con una chiara visione d'insieme, può - seppure con più fatica di un grande artista - produrre qualcosa di apprezzabile.

18) L'editore che si lamenta del contenuto ha a cuore le vendite, non il contenuto (è la definizione ironica di Letteratura Moderna e Contemporanea). L'eventuale correzione di bozze è un procedimento che richiede poca intelligenza, non è un arricchimento dell'opera. E sempre ricordando che l'editore, nel caso di anime e manga, è abituato all'insindacabile libertà di pretendere variazioni in corso d'opera. Per questo occorre presentarsi con un'opera già completa e consolidata, su cui si è lavorato senza darsi una scadenza precisa per la pubblicazione. Anche per quanto riguarda il tempo perso con gli editori a cui è stato necessario dire di no.

19) La stessa O'Connor veniva criticata perché le sue novelle contenevano “troppa violenza”. Ma ancor prima di leggere la sua risposta a tali critiche avevo già capito che chi le muoveva si era limitato a considerare la novella un elenco di eventi: tizio dice questo, tizia fa quello, infine tutti felici e contenti, con dosi predeterminate di violenza accettabile e di turpiloquio tollerabile. Proprio quel genere di persone che letterariamente non vede al di là del proprio naso e che - per esempio - considererebbe Il nome della rosa un giallo ambientato nel Medioevo anziché un trattato filosofico-iniziatico sul quale c'è confezionata come copertura una storietta anti-monaci. L'affermazione “nuda nomina tenemus” - nominalismo infilato alla fine di un crescendo inteso a negare la realtà (della realtà avremmo “solo nudi nomi”) - è in latino affinché gli incolti credano di aver solo letto un romanzo.