lunedì 31 ottobre 2011

Ancora su quegli ''innanzitutto uomini''

Era una piovosa mattina di fine ottobre e il parroco era furente perché i fedeli giungevano in ritardo alla Messa. Al terzultimo banco c'ero io, intirizzito, seminascosto e infreddolito. E in ritardo a causa della pioggia. Erano i tempi in cui di domenica mattina mi occorrevano venticinque minuti a piedi per andare a Messa, salvo avverse condizioni metereologiche. Un'automobile di passaggio (ma di passaggio molto veloce) aveva sollevato un'onda anomala che mi aveva centrato in pieno. Non ero un ragazzino moderno: avevo infatti proseguito di buon passo per la mia strada pensando al conforto che avrei trovato nel Santo Sacrificio della Messa. Trovai invece il parroco infuriato contro i ritardatari, contro quelli che non si tengono per mano al padrenostro, contro quelli che sgattaiolano via immediatamente dopo l'«andate in pace», contro quelli che non sono abbastanza generosi per le iniziative parrocchiali...

In una predica nelle domeniche successive si sarà certamente lamentato anche dei giovani che abbandonano la parrocchia. Ma non potei ascoltarlo: ero infatti diventato anch'io uno di quei giovani. La sua sfuriata di quella domenica di fine ottobre, iniziata con quel “so bene che piove, ma...”, era stata molto convincente: coi pantaloni infangati fino al ginocchio, con un cielo grigio che versava giù a catinelle picchiettando la parrocchia su ogni lato, con attorno l'alito pestilenziale delle vecchiette che mi circondavano, mi ero sentito colpevole di altissimo tradimento alla Chiesa lungo tutto la Messa, riconoscendo l'esecrabile colpa di non aver anticipato la sveglia di un quarto d'ora per prevenire eventuali ritardi dovuti ad eventuali piogge. Ma nel tornare a casa, pensando a tutto fuorché agli ultimi novanta minuti, mi sentivo liberato: non trovavo nulla da recriminare, non più alcuno scrupolo. In qualche modo il vaso era traboccato ed il sottoscritto era improvvisamente entrato a passo deciso nella schiera di coloro che non vogliono più saperne nulla di santa madre Chiesa. Cento campagne di ateismo e mille discorsi anticlericali non avrebbero sortito neppure una frazione di ciò che poterono quelle poche esternazioni del parroco e quel suo sguardo censore mentre puntava il mirino anche verso di me. Se lo sapessero i Radicali, farebbero fuoco e fiamme per vedere approvata una legge che obblighi tutti i giovani ad andare sempre a Messa.

Certo, dopo un po' di tempo, per grazia di Dio, imbattutomi in cristiani più seri tornai (con vera gioia e gratitudine) alla Chiesa cattolica - ma questa è un'altra storia.

Il ricordo di quel parroco e di qualche suo successore mi ha sempre fatto riflettere sull'oscura dinamica per cui nonostante tutti i discorsi e tutti gli auspici oggi la formazione al sacerdozio punta più ad una cultura teologica e ad un generico darsi da fare, che a formare sacerdoti “innanzitutto uomini”. Il principale problema di ogni prete simile al sopracitato è il vivere in una specie di realtà virtuale: parlerà non ai fedeli che ha concretamente davanti, ma alla mutevole (e sempre pallida) immagine di essi che gli gironzola per la testa, quella descritta dai fumosi esami di Pastorale e dalle affettate prediche del seminario. Per cui ignorerà del tutto le loro concrete preoccupazioni, si affannerà in mille raccomandazioni astratte che al più possono interessare chi ha tanto tempo libero che non sa come impegnare, si darà da fare per elaborare sempre nuove Proposte Pastorali per risvegliare dalla fiacca il volubile Laicato e l'evanescente Giovane. Punterà il dito - magari solo per forza di abitudine - anche contro quel giovane che mendicando il conforto spirituale del Sacramento aveva aveva affrontato vento e pioggia.

Doveva essere un problema ben diffuso già mezzo secolo fa: per far infuriare a morte il clero ambrosiano, al don Giussani bastò rispondere: «siate innanzitutto uomini». Non asettici funzionari del sacro, non noiosi dispensatori di frasi fatte, non pedanti elargitori di fardelli di regole, non infaticabili organizzatori e presieditori di riunioni, ma uomini, innanzitutto uomini, perché sarebbe assurdo tentar di realizzare il professionista dell'annuncio di Cristo. Dopotutto è tragicamente facile verificarlo: basta invitare il parroco a cena. Di cosa si può parlare con lui? Con che argomenti gli si accende l'animo? Di che ampio orizzonte culturale dispone? Quanto si deve sforzare per stare al passo coi presenti? Al di là delle frasi fatte, cos'è per lui la vita, la fatica, la gioia, il lavoro, la sofferenza, la vita di famiglia? Ecco: il don Giussani aveva assolutamente ragione. Più vedo certi preti, più capisco che il don Giussani aveva definitivamente ragione. Una volta il mondo disprezzava i preti perché li odiava; oggi li odia perché gli ispirano disprezzo e noia. E li odia buttando nel calderone, come sempre, anche i preti “più uomini” (che però oggi non sembrano essere la maggioranza, al contrario di ieri).

Di fronte al ciarpame liturgico e catechetico attualmente in voga vien davvero nostalgia di quando i preti erano “innanzitutto uomini”. Uomini di scienza, uomini di cultura, uomini capaci di appassionarsi, di immedesimarsi, capaci di vedere con chiarezza ciò che tu riuscivi a stento a intuire. Era il detestato parroco a insistere perché tuo figlio andasse al conservatorio o all'istituto d'arte (e te lo diceva perché sapeva riconoscere meglio di te l'arte), era il deprecato curato a scoprire l'ingegnere o il letterato che avevi per figlio (per essere veri talent-scout bisogna prima avercelo, il talent), era il disprezzato prevosto a dirti che quella donna è troppo volubile per te (e sì, perché il prete, proprio in quanto ostinato nella castità, delle donne osservava l'anima mentre tu ti eri inconsciamente limitato al resto). Con rigorosi -anche quando minimi- studi ecclesiastici, trasmettevano qualcosa di vivo, capivano le cose della vita prima di te, ti veniva voglia di invidiarli, di seguirli, di prenderli sul serio. Fino a non troppo tempo fa, scienziato era necessariamente sinonimo di consacrato. Ti veniva inevitabile pensare: Cristo c'entra. Era così perché la fede e la vita erano tutt'uno, Cristo non era ridotto a materia da professori in vena di sciccherie.

Se per un attimo si mette da parte la pigrizia mentale del delegare ogni giudizio alle trasmissioni televisive, ci si accorge che i preti che spiccano, quelli che davvero ti vien voglia di seguirli, quelli che davvero ti dicono qualcosa, non sono quelli che Fanno Grandi Cose, non sono quelli che effettuano con professionalità tutte le Operazioni Prescritte dai Regolamenti, ma sono quegli “innanzitutto uomini” nel mondo reale. Sono quelli le cui “prediche” hanno a che fare tanto col Vangelo del giorno quanto con le questioni serie della vita, sono quelli le cui parole non ti suonano inutili e insipide nel momento in cui ti trovi nei guai, sono quegli “innanzitutto uomini” che nel vedere uno che pur di avvicinarsi al Sacramento sopporta venti minuti di pioggia, si sarebbero commossi.

lunedì 3 ottobre 2011

Una bidonata ricordata negli Atti

Il caso è descritto in At 15,36-40: Paolo dice a Barnaba di partire con lui, «Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera. Il dissenso fu tale che si separarono l'uno dall'altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s'imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì».

Paolo e Barnaba erano stati scelti dallo Spirito Santo («Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati»: At 13,2). Paolo neanche comincia la sua prima missione, che a Perge di Panfilia per imprecisati motivi quel Giovanni detto Marco lo pianta in asso. I due “riservati” dallo Spirito finiranno dunque per avere un dissenso grave al punto di dividersi. Barnaba se ne partirà per conto suo, portandosi quel Marco sebbene certificato come capace di tirar bidonate.[1]

Se di fronte a tanto dissenso non ci vengono fornite ulteriori spiegazioni significa che il bidone era di quelli che non meritano nemmeno di essere ricordati: ossia dovuto alla debolezza umana di quel Giovanni detto Marco. Posso supporre che fosse il tipico indeciso, una di quelle persone volubili, capaci di cambiare drasticamente idee e progetti da un momento all'altro. Oppure che a Perge avesse trovato una donna (forse anche soltanto da “evangelizzare castamente”) e quindi all'improvviso considerasse conclusa la propria missione con Paolo. Oppure vedesse Paolo come troppo deciso e temerario[2] per cui già da tempo era a caccia di qualche alibi più o meno elegante per sganciarsi. Da quel punto in poi Barnaba e il suo prediletto scompaiono dalla narrazione degli Atti.

Fin dalle origini la Chiesa è martoriata da dolorose divisioni spesso dovute, ancor prima che alle umane debolezze, al paternalismo confuso per paternità. Da allora ad oggi, una percentuale non trascurabile di ecclesiastici assurge ad alte cariche[3] nonostante plateali e frequenti dimostrazioni d'inettitudine (mi scrivono che non si dovrebbe guardare il bicchiere mezzo vuoto: non dovremmo lamentarci di un vescovo asino ma riflettere sulla divina Grazia che ha concesso ad un asino di diventare vescovo. Ma è un po' curioso questo accanimento nel voler attribuire alla divina Grazia sviste ed errori della gerarchia ecclesiale).

Così come il volgo confonde la libertà con il diritto di sbagliare deliberatamente, così certo clero confonde il legittimo preferire con l'ostinato incapricciarsi. Anche i laici impegnati, clericalizzatisi, amano commettere questo stesso errore, contribuendo a propagare (magari contro le loro stesse intenzioni) dissensi e divisione all'interno della Chiesa. Un esercito di Giovanni detti Marco avanza di carriera ancor oggi, a dispetto delle bidonate che hanno dimostrato di saper tirare nei momenti importanti, mentre i loro protettori si trincerano dietro l'alibi dell'aver fatto tutto il “dovuto discernimento”. Ironia della sorte, è proprio a questi esperti di bidonate che ci si ritrova a dover obbedienza e fedeltà, è proprio ai balzani progetti di costoro che ci si ritrova a dover architettare un modo per insufflar vita, mentre affannati ricordiamo che globalmente la Chiesa è assistita dallo Spirito.


1) Dobbiamo necessariamente assumere che Giovanni detto Marco sia stato come minimo entusiasta di partire. Direi addirittura insistente: di fronte ai pericoli dell'andare in missione (cfr. 2Cor 11,23-28: battiture, naufragi, lapidazioni, freddo, briganti, fame...) Barnaba si sarebbe guardato bene dall'accollarsi una zavorra.

2) L'apostolo Paolo poteva permetterselo: era civis romanus, dotato della cittadinanza romana, protetto dalla legge. Infatti quando verrà condannato a morte, sarà per decapitazione: l'umiliante crocifissione, infatti, non era prevista per i cittadini romani.

3) Immagino l'espressione vanesia e soddisfatta - “Vedete? Vedete?” - mentre si rigira tra le mani il suo nuovo biglietto da visita in caratteri sontuosi: Giovanni (detto Marco), assistente all'evangelizzazione prescelto da Barnaba, riservato dallo Spirito.