martedì 3 dicembre 2019

Qui bisogna fatturare, capito? Fatturareee!

L'idea a cui non riuscirò mai ad abituarmi è l'imprenditoria senza rischio, anche se siamo nell'epoca del caffè decaffeinato, della cioccolata senza cacao e del matrimonio omosessuale. Il caso di oggi è un'azienda tecnologica che, se fosse un negozio, sarebbe uno di quelli col sottotitolo universale, tipo: "ferramenta e di tutto un po'", oppure: "abbigliamento e non solo" (nel senso che in entrambi i negozi puoi entrare e regolarmente acquistare una scatoletta di tonno e lo shampoo per il cane).

Un amico ha realizzato per hobby un aggeggino. Tutto a proprie spese, come un qualunque appassionato. Una roba che ha richiesto conoscenze di elettronica, meccanica, informatica, e un considerevole numero di ore di lavoro di progettazione, costruzione, collaudo. "Vieni a proporlo nella nostra azienda", gli dice un conoscente che è il bis-cugino del pro-cognato di uno dei manager, "andrà via come il pane, farai soldi a palate". L'hobbista, dopo numerose insistenze, suo malgrado accetta. Il manager ci mette quindici giorni a fissare un appuntamento, infine programmato all'ora di pranzo di un venerdì.

Al momento della presentazione, il manager da un lato si comporta come se avesse davanti un venditore di aspirapolveri dozzinali, dall'altro come se fosse vagamente interessato ma si aspettasse tutt'altro (ma come? l'aspirapolvere che non fa il caffè? - è la tipica ossessione italiota del tener basse le aspettative commerciali altrui, presumendole esagerate ancor prima di iniziare), nel frattempo facendo domande un po' troppo indiscrete sui dettagli più delicati (come se si sentisse abbastanza furbo da carpire qualche segreto industriale che lo farà campare di rendita per sempre).

Ora, il suo mestiere dovrebbe consistere nel capire le potenzialità che l'aggeggio già ha (e solo in un secondo momento quelle che in futuro potrebbe avere), il costo per trasformare il prototipo in un prodotto, la stima dei ricavi futuri per valutare se affrontare tale costo. Cioè dovrebbe usare l'intelligenza e il buonsenso (e, se ce l'ha, anche l'esperienza e il fiuto), partendo dal fatto che se la cosa va in porto l'azienda ha risparmiato tutta una lunga fase di progettazione e prototipazione. Già, perché le aziende italiane che fanno davvero un minimo di ricerca e sviluppo scarseggiano, per usare un eufemismo. I dipendenti sono considerati un centro di costo, non il motore del profitto, e ricerca e sviluppo sono ancor più un centro di costo qualora prima di cominciare la ricerca non siano ultimativamente chiari tempi e costi e margini di guadagno. "Imprenditoria senza rischio", cioè voler campare di rendita, voler fungere da inevitabili intermediari che con fatica prossima allo zero generano profitti ampi, sicuri, stabili, e magari anche crescenti. Praticamente la versione in giacca e cravatta del parcheggiatore abusivo.[1]

Nel caso di quell'hobbista, la contrattazione ovviamente non va a buon fine. Il manager addirittura trova un sottile modo di rinfacciare al malcapitato di avergli fatto perdere tempo con un aggeggio drammaticamente incompleto (concettualmente assimilandolo ad un aspirapolvere che non fa il caffè), e il tempo è denaro. Non solo tener basse le aspettative, ma anche tentare attivamente di ridurle finché sia possibile (l'hobbista pare timido, poco capace di contrattare, poco informato su quanto valore di mercato avrà il prodotto), anche a costo di ricatti morali, pur non avendo ancora ben chiare le potenzialità dell'aggeggio.

Ora, sappiamo già che in questa società la morale di un'azienda è la massimizzazione del profitto. E che se proprio si parla di dignità del lavoro, del rispetto dei lavoratori, della meritocrazia, ecc., si tratta solo di lip service, di belle parole estranee ai fatti e alle intenzioni e funzionali solo ad abbattere i costi e aumentare i profitti. E che il lavoro è diventato una merce su cui far la cresta, speculare, comprare all'ingrosso infischiandosene della qualità se non quando l'eccessivamente scarsa qualità produce minor profitto. E che per il singolo la capacità di saper contrattare, più il lusso di poter rifiutare un lavoro non conveniente, assommano normalmente ad almeno parecchie migliaia di euro l'anno di differenza. E che la ritrosia dei lavoratori dipendenti italiani nel parlare del proprio stipendio, degli stipendi tipici di un'azienda, finisce per farti scoprire (quando non puoi più contrattare) che l'inamovibile segretaria nullafacente guadagna più di te che sei personale "fatturante".

Ma c'è anche il fatto che all'italiano medio piace svegliarsi al mattino e «trovare tutto già pensato». E che l'Italia è zeppa di aziende virtualmente già fallite o costitutivamente già fallite. E che nel nostro Paese cresce solo la voglia di trovar lavoro a bassa specializzazione, mentre diminuisce l'offerta (quando ad esempio presenteranno la badante-robot avverrà un finimondo). E che qui il mercato del lavoro è sostanzialmente schiavismo.

L'aggeggio in questione è finito in garage a prender polvere. Gran soddisfazione l'averlo realizzato, gran delusione l'averlo presentato. Certo, in Cina ne fanno uno simile con più funzioni e minor costo ma funziona solo se connesso a internet, non è personalizzabile, e comunica ai cinesi in tempo reale tutto ciò che fai.[2]


1) Non è che all'improvviso una generazione di giovani si è svegliata al mattino e ha deciso di campare alla giornata a spese di mammà. Se la scuola è un macello, se in ogni ambito vengono premiati i raccomandati, se chi guida è non solo incapace di notare le tue qualità tecniche ma anche incapace di guardare al futuro più lontano di cinque minuti, non è che al giovane magicamente spunta la voglia di darsi da fare in proprio. Spunta invece la voglia di scappar lontano, o di campare a spese di mammà.

2) Un progetto del genere andava visto come "sartoria su misura". L'imprenditore lo pretendeva ad un prezzo da "grossista cinese dell'abbigliamento". La pressione fiscale in Italia è indicibile, ma non è la pressione fiscale a rendere miopi (e allergici al rischio imprenditoriale) gli imprenditori. Abbiamo intere generazioni che non hanno più idea della dignità del lavoro.