C'è un tabù innominabile perfino negli incontri della Compagnia delle Opere: è il fatto che gran parte delle aziende italiane sono virtualmente già fallite. Lo si riscontra nella loro difficoltà a saldare il dovuto a fornitori e dipendenti.
Mi viene in mente ad esempio il ridicolo «noi facciamo a novanta giorni», cioè il pagare un fornitore più di tre mesi dopo che il lavoro è stato completato, consegnato e fatturato (in realtà ci sono alcune grosse aziende italiane che pagano a "180 giorni", cioè sei mesi dopo, cioè verso la fine del settimo mese). A suo tempo avevo già commentato il caso di quell'azienda che bloccò il pagamento degli stipendi di agosto a centinaia di dipendenti (immaginatevi di ritrovarvi senza soldi proprio quando arriva il bombardone delle scadenze di settembre), con la scusa che il cliente aveva ritardato il pagamento. Un amico mi dice di aver ricevuto lo stipendio di novembre solo dopo Natale, e che deve prestare qualche altro centinaio di euro al suo ex datore di lavoro altrimenti quest'ultimo non potrà concludere un'attività che gli permetterà di fatturare (si spera) a marzo... e di pagargli le migliaia di euro di arretrati.
Se un'azienda non è in grado di pagare le spese correnti, sul piano economico è fallita. Deve chiudere i battenti. Non si può fare imprenditoria senza soldi (e con un cappio al collo proveniente dalla banca). Non ha senso restare in attività sperando che i clienti siano puntuali nei pagamenti e i fornitori accettino ritardi. Non ha senso mantenerla aperta se ogni giorno occorre inventare nuovi trucchi per procrastinare i pagamenti. Se l'azienda non ha soldi, non ha il diritto di trasformare dipendenti e fornitori in "prestatori" involontari (e se l'azienda deve freneticamente correre a mostrare le fatture in banca, significa che di fatto è già fallita).
Ed invece è esattamente quel che è successo - in Italia come altrove. Abbiamo un tessuto di piccole e medie imprese tutte sull'orlo del collasso. Tutte che faticano ad arrivare a fine mese - proprio come i loro dipendenti, trattati spesso come il cavallo dell'orwelliana Fattoria degli animali: dopo averlo torchiato tutta la vita, lo vendono al macello per cavarne qualche ultimo dollaro. Come un caro amico assunto per un mese: si accorgono che è metodico, onesto, puntuale, e gli rinnovano il contratto, prima di un altro mese, poi di un altro, e poi... gli propongono di prolungare a part-time (col sottinteso che dovrà produrre lo stesso di prima in metà delle ore) perché non hanno soldi. E che non abbiano soldi si nota dal ritardo nel pagamento del primo mese, e dal non ancora avvenuto pagamento degli altri due. È insomma un'altra delle aziende che sul sito web sembrano floride e in realtà fanno fatica a stare in piedi mese per mese. Ed il metodico lavoratore in questione non può tirarsi indietro perché altrimenti non vedrà più gli arretrati. Praticamente uno schiavo.
Quando pagai l'operaio che mi aveva fatto dei lavori in casa durati alcuni giorni, fu così contento che pareva Zaccheo mentre scende dal sicomoro. Non avevo fatto nulla di particolare: senza fiatare gli diedi quanto avevamo inizialmente concordato e pagai un minuto dopo il termine dei lavori. Era contento perché non ricordava più l'ultima volta che era avvenuto altrettanto.
Avvenne non solo per la dignità del suo lavoro: semplicemente gli avevo commissionato la cosa quando avevo la certezza di poter pagare. Nelle aziende, invece, già stritolate da sei mafie, vige la regola opposta: "intanto accettiamo la commessa, poi si vedrà". Il «poi si vedrà» è composto anzitutto da una selva di trucchi per ritardare e diminuire i pagamenti (cioè ai limiti del furto), per torchiare i dipendenti a lavorare di più senza che cresca proporzionalmente il loro compenso (cioè frodare la mercede agli operai), e limitarsi a consegnare il minimo indispensabile per salvare le apparenze (cioè nuovamente ai limiti del furto).
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