Un padre in lacrime che chiede: “chi sei tu?” E lui che dopo un attimo di esitazione gli risponde: “Spiderman”.
Un attimo prima quello stesso padre piangeva disperato, gridando al cielo una delle tante varianti della preghiera dei disperati: qualcuno faccia qualcosa. Preghiera che domanda senza sapere neppure cosa domandare, ammettendo dunque implicitamente la propria insignificanza di fronte all'universo (proprio da parte di chi fino a poco prima era carico di sicurezze sulla vita, strumenti per primeggiare, risorse da nababbo).
E un attimo dopo Spiderman prende coscienza della sua missione, pronunciando il suo nuovo nome. Come un monaco che compie liturgicamente la sua professione solenne. I poteri (sacerdotali?) di cui ora è dotato, non sono per sua comodità, non sono per le sue vendettine personali, ma sono per il popolo. Col celibato (dunque la castità) necessario per poter compiere la sua missione, poiché la vocazione non è un mestiere: il mestiere ti tiene impegnato negli orari di lavoro dei giorni feriali, la missione ti tiene impegnato tutte le ore di tutti i giorni di tutti gli anni.
C'è come un incomprimibile senso cattolico della vita che sbuca fuori quando si cerca di seguire le vicende della vita di un supereroe. Per questo al film Spiderman del 2012 hanno dovuto appioppare un finale sentimentalistico e anti-sacerdotale. Che, togliendolo, renderebbe il film più avvincente. Perché la storia di una vocazione è sempre irresistibilmente avvincente.
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