Il fatto è che per poesia oggi si intende un elenco rimato di espressioni mielose. Tanto più in occasione di festività religiose e ancor più nelle parrocchie, ed oltremodo più per il soggetto scelto: che? far recitare miei versi sulla Virgo Virginum di fronte a degli emeriti sconosciuti convenuti lì per uno spettacolo di intrattenimento? “Sei il solito lamentoso”, mi diceva con perfidia tutta femminile, “non ti si può chiedere nemmeno una cosa che ti farebbe piacere”.
Senza rendersene conto lei stessa ha in quel modo implicitamente ammesso due punti fondamentali. Il primo è che per trasmettere un messaggio occorre anzitutto che il destinatario desideri riceverlo. Il secondo è che non puoi trattare le persone che ami (tanto meno la Mater Divinae Gratiae) con gli stessi metodi con cui tratti le cose (se mi avesse chiesto una poesia sui cingolati agricoli non mi avrebbe trovato “lamentoso”).[1]
Il tipico parrocchiano non è spiritualmente assetato. Ottempera ai doveri del buon cristiano (quando ne ha voglia, e nemmeno a tutti) marcando presenza quel tanto che basta. I parroci italiani ne sono consapevoli (se non della stessa pasta) e sanno benissimo che ad organizzare una conferenza sul come conservare la virtù della purezza vedranno molti meno partecipanti che ad un musical sulla bontà... e vedranno molta più ostilità e derisione, anzitutto dai loro confratelli e da sua Eccellenza Reverendissima che a mezza bocca sta comandando - come il resto dell'episcopato - di escogitare ogni stratagemma contro la desertificazione delle comatose parrocchie.[2]
La perdurante crisi della Chiesa è cominciata (e sta esattamente proseguendo) col vergognarsi di dire chi è Cristo. Per cui le parrocchie sono divenute asettici enti emettitori di certificati e di banalità politicamente corrette. C'è da decenni la sconcertante convinzione che occorra attirare la 'gggente alla parrocchia, blandirla e assecondarla in ogni modo, per poter infine avere la possibilità di spendere una parola giusta, che poi si riduce ad una delle solite frasi fatte: Dio ti vuole incontrare, Gesù ti ama, Dio è amore. È lo stesso tipo di errore di chi vizia i propri figli: per indurli a mangiare due cucchiaiate di verdura cotta, devono blandirli con carriolate di doni, dolcetti, promesse, salatini, merendine, regalini, tutto circondato da sorrisi e da adulazione, ottenendo invariabilmente il risultato opposto.[3]
L'amica di cui sopra, incaricata di una particina secondaria nello spettacolo, ha perciò avuto a titolo onorifico compensativo il compito di comporre e leggere una poesiola. Immaginatevi il parroco mentre glielo domanda pensando: facciamogliela fare sugli angeli, anzi no (a causa di quel film idiota che han fatto in TV), facciamogliela scrivere su Gesù, anzi no (le carismatiche della parrocchia se ne risentirebbero), facciamogliela fare su san Francesco, anzi no (duplicazione di temi già trattati), facciamogliela fare sulla Madonna (uh, beh, insomma, che ci vuole? tanto è facile, uscirà pure una cosa dolce come piace alla gente!)... I nomi che più abbiamo cari vengono trattati come “temi”, come “oggetti”, come magiche buzz-word da assemblare insieme (questo sono diventate le omelie oggi: un manierismo sdolcinato costruito sulle macerie del lessico cattolico).[4]
Nelle parrocchie d'entertainment (cioè, oggi, pressoché tutte quelle non piccole) non c'è posto per i ciellini di una volta: questi ultimi ancor oggi pensano che un'adorazione eucaristica[5] valga più del musical francescano, si esaminano prima di decidere se andare a fare la Comunione, si entusiasmano più ad ascoltare le verità di fede che le partite di campionato, provano disagio quando vengono cooptati (a marcar presenza, a lavorare, a pagare) per far sembrare riuscita qualche noiosa iniziativa parrocchiale o diocesana, hanno la fissazione di non voler vivere inutilmente neppure per un istante, sono convinti che è inutile parlare a chi non vuole ascoltare, hanno un fuoco dentro anziché un vuoto. E quel che è peggio, comprendono bene la lingua ecclesialese ma non la parlano, per cui non si può pretendere la loro complicità mentre li si prende per il sedere.[6]
Gli archeologi del quarantesimo secolo, riportando alla luce chiese-garage, paramenti-tendaggio, pigiami-clergyman, icone-sgorbio, poesiole mielose sulla Regina Angelorum, si chiederanno cosa diavolo sia successo alla Chiesa tra la fine del XX e l'inizio del XXI. Come mai ci si sia tanto affannati ad allestire campetti di calcio, impianti di amplificazione, orridi padre Pio, spettacoli musical con contorno di sdolcinate poesiole “mariane”... si chiederanno cosa diavolo sia successo.
1) Il fatto che le lamentele suonino sempre fastidiose non esclude il fatto che gran parte di tali lamentele effettivamente comunicano qualcosa.
2) Il tentativo di gestire la Chiesa con tecniche da management aziendale è fallito in partenza perché coloro che dovevano applicarlo hanno da tempo dimenticato quale è il mission statement (pur sgolandosi a dire che “occorre annunciare il Vangelo”) e quale è il core business (pur sgolandosi a dire che “occorre vivere di più i sacramenti”). Qui il management è riuscito in imprese titaniche: allontanamento di buoni sacerdoti, irrobustimento della burocrazia clericale, ridimensionamento di attività utili ma non remunerative spiritualmente e materialmente (e contemporaneo via libera ad attività elefantiache, inutili e ancor meno remunerative)...
3) “Speriamo che sia tu a perturbare la parrocchia”, mi direbbe don Carròn. Contro ogni speranza lo spera anche il sottoscritto, unico (e malvisto) ciellino delle parrocchie del circondario. “Un miracolo è la nostra sola speranza”.
4) Come in quei carceri dove si usa sodomizzare ogni nuovo detenuto, la primissima brutale violenza spirituale nei seminari cattolici è quando i compagni di seminario, i formatori stessi e persino le Eccellenze Reverendissime disprezzano e irridono (sottilmente o apertamente) la pia innocenza di chi ancora aveva un sincero tremore al cuore nel solo pronunciare i sacri nomi. Non c'è da meravigliarsi che tantissimi preti non abbiano alcun timore di smanettare distrattamente coi nomi di Chi ci è più caro, costruendo con indifferenza omelie e fervorini rimestando sempre la stessa minestra, come bambini che dispongono i pezzi degli scacchi come se assemblassero un frizzante party di bamboline.
5) Capitolo doloroso, quello delle adorazioni eucaristiche: chitarre, accompagnamenti musicali, fervorini da vomito, ostensori da barzelletta giacobina, panchette per poggiare il deretano fingendo di essere ancora in ginocchio, gente che si prostra solo per stanchezza...
6) Metti un coro di ciellini che si fa in quattro per preparare qualche canto polifonico. Metti che nella celebrazione della mezzanotte vengono però accontentati tutti quelli che vogliono cantare e suonare (eh, sì: in parrocchia bisogna dare spazio a tutti). Metti che infine l'untuoso parroco ringrazi il coro ciellino col solito frasario clericale (“oh, bel canto, ha aiutato molto la preghiera” eccetera), e qualcuno di quei volenterosi ragazzi tradisca per un attimo un sorriso di sarcasmo (sappiamo benissimo che quell'adulazione è il “pagamento” per il servigio). E così al Natale successivo non c'era posto per il coro, “però forse, si potrebbe, magari, ci risentiamo, vedremo”...
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