martedì 20 dicembre 2016

Peccati inconfessabili: il far attendere

Potrei scrivere un libro - anzi, un'enciclopedia - su una delle paure più invincibili di oggi: quella di dover attendere. E sul peccato gravissimo e quasi mai confessato: quello del far attendere quando non è assolutamente necessario.

Attendere: cioè sprecare parte della propria vita. Far attendere: cioè sprecare parte della vita di qualcuno che dipende da te.

Quanti gesti della vita normale sono dettati dal terrore di dover attendere: il consultare frenetico degli orari, il comprare l'auto per poter partire senza dover attendere l'autobus, il tentare di scansare la fila, il precipitoso organizzarsi (anche nelle piccole cose) per non rischiare nemmeno un minuto di "tempi morti". Si ha il terrore di attendere perché oggi, con quel cristianesimo di facciata (e con la mentalità mondana che fa sempre capolino anche nei più "praticanti"), il tempo passato attendendo è un "tempo morto": è la morte, è la vita senza significato, è il mondo e l'umanità che continuano a girare mentre tu sei lì imbambolato ad attendere, come congelato nell'anima.

I nostri nonni e bisnonni risolvevano santificando le attese sgranando rosari. Non avevano bisogno di pigiare sull'acceleratore, non portavano addosso lettori MP3 sempre carichi, non avevano la borsa piena di romanzi noiosi già dalla prima pagina, non imprecavano a tutta voce se l'autobus latitava per venticinque minuti consecutivi. Non avevano nel DNA il terrore nero di dover attendere, anche se un po' di paura c'era (il nonno, per il treno delle otto, puntava la sveglia alle cinque, calcolando la possibilità, una volta in stazione, di poter tornare a casa senza fretta a ripescare qualcosa che aveva dimenticato ed ugualmente riuscire a tornare a prendere il treno delle otto: oggi si fa l'esatto opposto, si arriva in stazione alle otto meno un minuto e si impreca fuoco e fiamme se il treno tarda due minuti o più).

Il far attendere quando non vi è nessun solidissimo motivo è la peggior tortura che si possa infliggere. L'impiegatino statale che ti dice di attendere (il suo caffè ha più priorità della tua vita e del suo lavoro), il pretino che ti dice di attendere (perché ha paura che il cervello si consumi se per un attimo pensa a come deve fare), perfino il capo regionale ciellino che ti dice di attendere quindici giorni (doveva solo fare una telefonata e farmi sapere, ma aveva paura che qualcuno pensasse che lui si dedichi troppo ai ciellini, troppo poco a quelli che pendono dalle sue labbra, e ancor meno a quelli che vanno da lui senza essere ciellini).

La paura di attendere è massimamente visibile nel traffico. Sembrano ossessionati dall'idea di dover passare dopo di te. Si accaniscono a sorpassarti cento metri prima della loro destinazione, ignorano lo Stop all'incrocio, s'infilano fra te e il marciapiede come se tu stessi dormendo, e in tutto questo ostacolano i mezzi pubblici e i furgoni (cioè gente che lavora). Una giungla urbana dove tutti pretendono di ruggire e soprattutto di fare i furbi per evitare di attendere una frazione di secondo in più.

venerdì 16 dicembre 2016

Inoccupabili

In Giappone li chiamano "nìito", pronuncia dell'acronimo inglese "NEET", Not in Employment, Education or Training: non lavorano, non studiano (più), non stanno neppure preparandosi a farlo. Il termine, più che una situazione sfortunata, indica una situazione voluta: non sono semplicemente "disoccupati", sono "inoccupabili", perché non hanno (più) intenzione di cercare lavoro... e non è detto che ciò sia dovuto alla pigrizia.

È un termine dispregiativo che si adatterebbe molto bene alla situazione italiana, specialmente in questi tempi di crisi, dove la scuola e l'università sono generalmente intese come aree di parcheggio, e il lavoro è generalmente inteso come uno scaldare la sedia cazzeggiando su Facebook in attesa che arrivi lo stipendio.

Ho avuto a che fare con diversi soggetti "inoccupabili", sprovvisti di creatività, di buon senso, di tensione verso qualsiasi cosa che non siano i piccoli temporanei insignificanti panem et circenses che si procurano dilapidando i miseri spiccioli estratti da parenti e conoscenti. La mia saggia nonnetta dice che «più piangono miseria dopo l'inverno, e più cercano di raccontarti le vacanze dopo l'estate».

L'esercito degli "inoccupabili" continua a crescere, anche perché vi si aggregano soggetti ragionevolmente convinti che nelle circostanze attuali non vale davvero la pena di lavorare. A che pro rovinare la propria salute fisica e mentale per uno stipendio che non basta neppure per vivere da soli? A che pro impegnarsi nello studio e nel lavoro se poi all'apice della carriera lo stipendio è la metà di un qualsiasi ignorante nullafacente del settore pubblico?

Domande come queste diventano particolarmente brucianti quando il parroco sedicente "del movimento" viene a farti la predica ricordando asetticamente qualche espressione di don Giussani, di quelle plastificate e insipidite dall'uso eccessivo che se ne faceva nella CdO.

Il declino di una civiltà è lento perché le isole felici sono dure a morire. Pochi e sparpagliati buoni insegnanti rendono la scuola ancora non completamente inagibile. Pochi e sparpagliati operai tengono in piedi l'azienda, forse anche senza saperlo. Pochi e sparpagliati tecnici e ingegneri tengono in piedi infrastrutture enormi, mentre tutti gli higher-up sono concentrati nel migliore dei casi a indire riunioni, parlare di affari, organizzarsi le vacanze. Autisti e macchinisti, operai tuttofare, tecnici coscienziosi. Non lo dico per sentimentalismo, ma perché potrei elencare nomi, posti, date. Ho visto con i miei occhi, lavorando, cosa succede quando l'ultima ruota del carro viene a mancare: all'improvviso la carretta si ferma, mentre uno sciame di mosche cocchiere si agita e strepita inutilmente. E sì, lo so anche perché in due casi ero io l'ultima ruota del carro, il giovincello volenteroso dotato di quel tanto che basta di esperienza e di buonsenso sufficienti per continuare a far girare la giostra.

In certi periodi sono stato anch'io uno di quegli "inoccupabili" che facendosi due conti della serva ha scelto di rifiutare una proposta di lavoro. Anch'io, come i tanti che avevo visto, sono arrivato al punto di ritenere che le mansioni e le responsabilità non valevano i pochi spiccioli che mi venivano offerti in cambio. Lo sciame di mosche cocchiere si è agitato lo stesso, nonostante i miei sforzi di tenere la discussione nel tono più asettico e diplomatico possibile. Proprio ciò che è avvenuto ad amici e conoscenti di cui in passato avevo scritto su queste stesse pagine.

L'esercito degli "inoccupabili" cresce giorno per giorno. I soloni che scrivono (o hanno il tempo di leggere) i giornali si lamentano dell'invasione degli immigrati, e poi fingono di non notare che quelli vanno a riempire i nostri vuoti - quanto al lavoro, quanto alla società, quanto alla religione e a tutto il resto. Si lamentano degli sfaccendati nullafacenti, non accorgendosi che tra loro ci sono quelli che ritengono non valga più la pena accettare una paghetta da studentello per assumersi responsabilità e impegni di grande rilevanza (e non è un caso che in tanti siano fuggiti all'estero).

giovedì 15 dicembre 2016

Il carro sul pendio stavolta è il nostro

Il movimento non è più quello che ho conosciuto. Ne ho raggiunto drammaticamente la certezza quando il Carrón ha prepotentemente umiliato uno dei miei amici. Quando dall'alto calano banalità intese a sostituire ciò che di buono abbiamo sempre professato, quando si rifiuta di dar ragioni chi da una vita ti spronava alla ragione, quando l'autorità viene bruscamente sostituita dall'autoritarismo, che si fa? Ci si rassegna a prendere atto con l'espressione più antipatica che c'è: "non sono io ad essere cambiato, ma il movimento".

Questo mio sperduto e insignificante blog mi ha guadagnato in poche settimane parecchie strane email, tra il piccato e il curiosone[1] perché ho osato accennare all'indicibile, al vero argomento tabù delle scuole di comunità: l'attuale crisi interna del movimento. Di fronte alla quale un don Giussani conoscerebbe solo misure drastiche (come ad esempio ad Assago nel '76, e come all'indomani della sconfitta sull'aborto nell'81). Ovvio che se il movimento è vissuto come il club dell'alce si farà parecchia fatica prima di afferrare il concetto. Al sottoscritto, in qualità di unico ciellino della parrocchia - con automatico marchio di diffidenza da parte del parroco e dei notabili di sagrestia - è bastata meno fatica.

Che la scuola di comunità non ti cambi (cioè è inutile), pazienza: non hai mai avuto il potere di cambiare le teste di capi, capetti e professionisti della Domanda Intelligente. Che il movimento per te si sia ridotto ad uno sparuto manipolo di amici distanti uno sproposito di chilometri da te, pazienza. Che le indicazioni di ubbidienza dalla diaconia centrale siano da anni sempre più confuse, pazienza. Ma che quegli amici vengano perseguitati e inutilmente umiliati, questo ti rode, è un tarlo stacanovista, è una pulce col megafono nell'orecchio più sensibile.

Tale crisi interna - confermata in particolare dall'inaudito decrescere dei Memores Domini - mi addolora perché vedo che il movimento che mi ha fatto crescere nella fede ha imboccato la strada per trasformarsi esattamente in ciò che voleva farmela perdere. E non per un difetto di chi segue, ma per volontà di chi guida.[2] Il che suona particolarmente drammatico dopo una vita che abbiamo battuto sul tasto della sequela, dell'ubbidienza anche quando non si capisce (poiché chi segue non censura niente). L'ubbidienza è una forma di amicizia, ma questo vale anche per l'altro versante perché altrimenti è complicità, oltre che masochismo.[3]

Pur domandando nella preghiera che il Carrón rinsavisca (poiché sta diventando chiaro il suo obiettivo), non posso fare a meno di pensare al sale insipido e alla mangiatoia bassa. Tra non molto tempo potremmo ritrovarci a dire con indifferenza: "ah, Cielle, sì, in quella originale investii con gioia tempo, pazienza e soldi: quella originale, dico, quella bramosa di Cristo, non di applausi".


1) Perfino di censura, a conferma della spietatezza del regime in vigore.
2) Per esempio quell'americanismo di maniera e quella necessità di incensare i potenti laddove sarebbe stato sufficiente e onorevole un composto silenzio (vale sia per le sviolinate ai politici, sia per l'assiduo scodinzolare attorno a papa Bergoglio, sia per le parate con sorriso obbligatorio dinanzi ai vescovi ostili).
3) I ciellini ridanciani dalla pancia piena, quelli del "ma dai, ma dai, sei sempre il solito", se ne accorgeranno solo quando sarà troppo tardi.

venerdì 2 dicembre 2016

Sento puzza di bruciato

In poche parole ci viene chiesto di contrapporre la testimonianza alla militanza. Un irenistico porsi senza opporsi, specularmente contrario a ciò che ci insegnava don Giussani.

mercoledì 2 novembre 2016

Storie ridotte a elenchi di immagini

Nel solito filmetto di propaganda bellica americana si vede, nelle prime scene, il supercattivo che spara una pistolettata alla nuca di una povera commessa di un negozio, in lacrime perché cosciente che la sua morte è imminente. Alla giovane commessa, bella e con un sorriso da favola, spetta la morte perché altrimenti lo spettatore potrebbe avere la possibilità di pensare che il supercattivo non sia tale al cento per cento. È un vecchio mezzuccio utilizzato dalla cinematografia dei cafoni di tutti i tempi (come ad esempio gli spaghetti-western): avvisare subito lo spettatore che per il supercattivo di turno non ci saranno perdono e pietà, neppure la pur vaga possibilità di redenzione.

Raccontare una storia è stato fin dalla notte dei tempi un modo per trasmettere conoscenza senza rischiare con la diretta esperienza. C'è stato bisogno di storie per mostrare la differenza fra coraggio e temerarietà, fra paura e timore, fra generosità e spreco, fra amore e infatuazione, fra decisione e ostinazione... La capacità di raccontare - e ancor più quella di ascoltare, ossia di apprendere - hanno risparmiato un'infinità di dolori, fastidi e imbarazzi.

Nella cinematografia d'entertainment la trama è in genere solo un'impalcatura su cui vendere immagini. Il glorioso film d'azione sopracitato ha bisogno di una innocente "morte introduttiva" per poter esibire la tipica e prevedibile fiumana di mazzate, coltellate e pistolettate come necessaria - una reazione che si autosostiene fino al prevedibile finale di vendetta efferatamente compiuta.

venerdì 28 ottobre 2016

Pianista, cioè nato ricco

Da bambino notavo - con invidia e fastidio - come un mio compagno di classe fosse sempre pieno di "giocattoli" da adulti. Strumenti musicali veri, apparecchiature da tecnico elettronico vere, bici da strada vere, enciclopedie e librerie vere, apparecchiature fotografiche vere, una casa adeguatamente climatizzata... Oltre naturalmente ad una vasta quantità di giocattoli che aumentava anno per anno.

La presenza di un vero pianoforte in casa non è garanzia che uno dei figli diventi pianista, ma è comunque una prima indispensabile e irrinunciabile premessa. Se avessi avuto anch'io in casa un violino o un pianoforte, ci sarebbe stata una possibilità per desiderare (e ragionevolmente convincere i genitori) di entrare in conservatorio. Non puoi intestardirti a voler entrare in conservatorio se gli strumenti musicali veri li hai visti solo in televisione: sarebbero anzitutto i tuoi genitori, col loro fondato scetticismo (nonostante l'idea stuzzicante di un figlio musicista), a farti passare l'ispirazione.[1]

Quel compagno di classe è poi divenuto pianista. La storia di ogni pianista, insomma, comincia con un pianoforte vero in una casa adeguatamente climatizzata.[2] La povertà materiale fa regolarmente strage di talenti. Non mi sarei meravigliato se fosse diventato un ingegnere, o un ciclista professionista, o un fotografo. O anche qualcos'altro, vista la varietà di "strumenti" a disposizione per stuzzicare la sua intelligenza fin da piccolo.[3]

A chi sentimentalmente obiettasse che il vero talento non muore e che prima o poi trova un modo per esprimersi, occorre far notare che la vita è breve, e che il tempo perso nella noia e nelle distrazioni e nel desiderare ciò che "non ci si può permettere", non torna più. È agghiacciante notare certuni che, superati i venti o addirittura trent'anni, in qualche modo cominciano ad accorgersi di aver bruciato l'intera infanzia e adolescenza in attività non creative, cioè in ultima analisi noiose (come lo spostare pupazzetti colorati sullo schermo, come il cazzeggio su Facebook, come il seguire telefilm, spettacoli, sport, solo perché non c'era altro di stuzzicante...) e la cosa li manda ancor più in depressione.


1) In una società attratta solo dalla volgarità e dal chiasso, con che prospettiva ci si impegna a studiare per vent'anni in conservatorio per diventare direttore d'orchestra?
2) Se nel passato abbiamo avuto grandissimi talenti provenienti da famiglie non ricchissime, è perché un ambiente "familiare" e imbottito di arte - cioè le parrocchie e i conventi - sopperivano a quella povertà. Oggi, con le chiese-garage, la fede ridotta a intimismo, l'arte ridotta a brutture comprensibili solo da critici specializzati, resta a stento la famiglia. Che ha come principale preoccupazione quello di distrarre i figli. Oggi la massima aspirazione del tipico ragazzino è di diventare youtuber, cioè una star che guadagna soldi grazie all'esibizione della propria ignoranza e della propria cafoneria.
3) Un trapano a percussione non va messo in mano ad un bambino di sei anni: ma se il bambino in questione ti vede usarlo con soddisfazione, prima o poi vorrà provarlo. Quel passaggio da giocattoli (cioè strumenti per distrarti) a strumenti veri (cioè quelli che servono a fare e creare davvero), accompagnato da un adulto che esprime una passione, normalmente segna una vita intera.

mercoledì 26 ottobre 2016

Persecuzioni interne

Il mio legame col movimento di Comunione e Liberazione ha avuto origine per osmosi. I miei migliori amici, le persone che stimavo di più, vi appartenevano: non ebbi minimamente bisogno di chiedermi se aderire o no. Ed ogni volta che partecipavo a qualche iniziativa del movimento restavo a bocca aperta perché vedevo fin dove era ramificata quella cerchia di amicizie, e cosa significava l'esser coscienti di Cristo realmente presente. Al punto che ero io a stupirmi che qualcuno pensasse che ero entrato in una specie di grosso club e che non notasse che invece si trattava di un vero popolo nel senso cristiano del termine.

Ho perciò sempre percepito l'istituzionalizzazione del movimento come un indesiderato fardello, come una specie di tassa pagata alla burocrazia ecclesiastica, l'iscrizione obbligatoria all'albo dei movimenti parrocchiali con i conseguenti obblighi e adempimenti (anche in termini di discorsini da sciorinare e di linguaggio clericalese da adoperare). Ma quello che non potevo prevedere era la contemporanea trasformazione in "Cielle OGM" che temo esserne una diretta conseguenza. La cielle geneticamente modificata può anche essere farcita di grappoli di termini ciellini ma ti accorgi che è diventato il gergo interno di un club, non più la precisione di chi ha qualcosa di concreto da testimoniare.[1]

Giussani scelse come suo successore Carrón, vanificando i sogni e le brame di diversi italiani convinti di avere le carte in regola per dirigere l'opera. Dopo alcuni anni qualcosa è andato storto. Non è stata una gran sorpresa, viste le pieghe prese pateticamente da diverse grosse entità legate a filo doppio al movimento, e proprio nella direzione che senza alcun fondamento ci contestavano quarant'anni fa i comunisti e i laicisti.[2]

Che Carrón abbia preso una brutta piega - temo per ordine dell'autorità ecclesiastica, solo perché mi riesce troppo difficile supporre che lo abbia fatto per convenienza del movimento - continua ad essere dimostrato da fatti non proprio entusiasmanti e da un neoclericalismo che tutto pensoso cerca nuovi percorsi di conoscenza e di verifica della natura del carisma: in pratica Giussani va spedito in soffitta, nelle scuole di comunità e negli esercizi spirituali si deve sostituire il libro di Giussani col libro di Carrón, l'articolo di Giussani con l'articolo di Carrón, l'intervista a Giussani con l'intervista a Carrón... nuovi percorsi, cioè dubbi sulla natura del carisma.[3]

La scure carroniana continua ad abbattersi infaticabile su chi osa chiedere ragione di quest'obbligatorio aggiornamento.[4] Un imprecisabile membro dei Memores Domini è stato formalmente diffidato per iscritto da Carrón e minacciato di essere buttato fuori se avesse ancora preso pubblicamente posizione non allineata. Gli è stato pure imposto il silenzio con quelli della casa: non sia mai che il virus infetti qualcun altro.[5] È andata peggio a Barbara, capocasa dei Memores, cacciata fuori personalmente da Carrón. E tanti altri Memores minacciati e obbligati al silenzio, pena la stessa sorte,[6] come se l'ubbidienza non fosse più una forma di amicizia (che in quanto tale comporta qualcosa anche per il capo), ma solo l'esecuzione di ordini e la ripetizione di discorsi.[7] Vietato ricordare, vietate le perplessità.

Non era questo il movimento che avevamo incontrato. Fioriscono di conseguenza le scuole di comunità "clandestine" e le iniziative come l'assemblea di Bologna di un mese fa. Ci si organizza su Facebook in gruppi "segreti".[8] Si condivide il proprio disagio quando i rispettivi capetti non sono presenti. Una volta erano comunisti e laicisti a perseguitarci e a considerarci come pacchetto di voti e di risorse da agguantare e "valorizzare".

Oggi invece capita - in una casa di Memores, mica in una famiglia di sedicenti "cristiani non praticanti" - che raccontando dei ciellini conosciuti al Family Day, e del disagio di questi ultimi per le dense nuvole che si addensano sul movimento, ci si sente rispondere: "ti proibisco di parlarne in casa perché queste cose non aiutano" (notate l'espressione clericale in termini impersonali: "non aiutano"). O che parlando dell'aborto cali come una mannaia l'ordine di tacere perché "non bisogna essere così netti, occorre essere calmi, dialogare, fare attenzione, non arrabbiarsi, non alzare la voce, non dare giudizi troppo forti..." (il genocidio di bambini trattato alla stregua degli orari condominiali della raccolta differenziata: avviene oggi, nel 2016, nelle case Memores carroniane). Nel Sessantotto ci chiamavano "integristi", e oggi l'ordine di scuderia è essere integristi del buonismo clerical-impersonale.

Chicca finale - per ora - è la lista di proscrizione che Russia Cristiana ha pubblicato per condannare nientemeno che... il "fondamentalismo" cattolico [sic!]. Eppure il ciellino autore di quel dossier è abbastanza anziano da ricordare che ad essere etichettati "integralisti", "fondamentalisti", "integristi", non troppi anni fa, eravamo proprio noi, lui compreso. A questo punto non capisco perché non abbia ancora cambiato il nome in Russia Sovietica. Rinvio ad un'intervista a mons. Luigi Negri per i dettagli.


1) Giussanologi e cielloti vedono l'avanzata dei carroniani. Mea culpa, per essermi ostinato a non accorgermene quando notavo la riduzione del movimento a movimentismo.
2) Ora mi diventa più chiaro il nesso tra quel mancato applauso al Presidente e il consistente calo del fondo comune.
3) Che il Bergoglio ci detesti è palese fin dalla primavera 2013, ma la scelta carroniana di rispondere solo con sviolinate, oltre che perdente, puzza anche di piccineria. Come se il successore di Pietro abbisognasse di una claque. Anche quando la esigesse.
4) Non sarebbe la prima volta che l'autorità della Chiesa decide di vandalizzare un buon frutto e che in nome della santa ubbidienza venga incaricato di devastare il roseto proprio il giardiniere che lo aveva gratuitamente curato. Ma non eravamo noi quelli che insegnavano a non ridurre l'ubbidienza a mera esecuzione di ordini?
5) Ti tornerà in mente quando anche tu vedrai qualche amico Memor ostinatamente nicchiare.
6) Sarebbe questa la nuova versione del "rischio educativo".
7) I Memores Domini sono la punta di diamante del movimento. Sono generalmente quelli che sanno davvero cos'è che ha detto e fatto don Giussani, cioè sono quelli che non puoi prendere per il sedere ma puoi solo zittirli esigendo ubbidienza, facendoteli o complici o nemici.
8) I gruppi Facebook impostati come "privati" hanno visibile almeno la lista dei partecipanti...






mercoledì 12 ottobre 2016

Cielle OGM: il Nuovo Corso s'avanza, ma...

Dall'alto piovono nuovi percorsi (i vecchi sono superati) di conoscenza e di verifica della natura del carisma (che dev'essere cambiata tanto da richiedere nuovi percorsi, per un cambiamento di pelle in modo da viaggiar più speditamente verso l'ignoto. La nuova parola d'ordine è: cammina bene l'uomo che non sa dove andare).
Quelli che oggi mi accusano, ne faccio una questione personale, di coltivare l'idolatria delle origini, il "Giussani del mito", questi che mi accusano non mi fanno paura, anzi mi fanno ridere. Quello che ho detto adesso non è un mito, non è una cristallizzazione, ma ciò che ho vissuto nella mia carne e nel mio cuore. Quelli che adesso ci vorrebbero imporre il nuovo corso, il viaggio verso l'ignoto, sono sempre citazioni da La Repubblica, sono loro quelli che nel '68 se ne andarono, e adesso dalle pagine di Repubblica vogliono imporci il cambiamento di pelle, cioè ci vogliono spellare vivi ci vogliono togliere questa memoria, per andare ad un nuovo corso dove non si sa dove si vada. Quando ho letto quella roba lì non sapevo più cosa pensare. Sono loro quelli che nel '68 se ne andarono e io invece permango nel solco.
In aggiunta a quanto già detto qui, vale la pena farsi un'idea sull'assemblea tenutasi a Bologna il 25. Buona lettura!

domenica 25 settembre 2016

Ricchi e poveri (e lacrisi-lacrisi-lacrisi)

La proprietaria dell'azienda si concedeva uno stipendio pari a due volte e mezzo quello degli operai che aveva assunto. Il che non suonerebbe troppo fastidioso se nel momento della crisi non avesse fatto quel che fan tutti: bloccare gli stipendi degli operai. L'imprenditoria italiana è fatta così: "è facile fare i froci col culo degli altri".

C'è da assumere un nuovo tecnico, da dispacciare nella sede del cliente quasi tutto l'anno. È uno che conosce bene il mestiere, ha fatto tutta la gavetta, e sa riconoscere le melliflue e adulanti chiacchiere di circostanza. Quando infatti si arriva all'accordo economico, aggrotta i lunghi e neri sopraccigli perché si sente rispondere dalla proprietaria che il mercato è in crisi, e che più di tot in busta paga non si può mettere.

La chiamano crisi economica, in realtà è solo la crisi dei poveri poiché i ricchi la usano come ulteriore leva per speculare. Chi ha davvero bisogno di lavorare (come ad esempio un padre di famiglia, tanto più con mutuo sulle spalle) finisce per accettare lavori sottopagati. Cioè tutti. Quello della contrattazione della paga è il momento in cui riconosci un testardo che non ama essere sottopagato, o uno che non ha urgente bisogno di assicurarsi uno stipendio.

È il caso del tecnico di cui sopra. Si alza senza dir nulla e fa per andar via - la sua esperienza include anche il vedere il bluff. La proprietaria, tentando di non dare a intendere che quel tecnico è necessario, gli dice frettolosamente che è ancora possibile trovare un accordo. Cioè gli fa capire che anche in quest'azienda gli ubbidienti vengono maltrattati e i piantagrane premiati (proprio quel che avviene in certi settori della Chiesa cattolica: e perciò mi si conceda già ora di chiamarlo clericalismo del mondo del lavoro).

Dopo un paio di volte che il tecnico vede il bluff finalmente si arriva all'agognato "accordo". Ha spuntato pressappoco il 25 per cento in più della magra offerta iniziale, nonostante "mercato in crisi" e tutto il resto. Non lo sa ancora, ma ha ottenuto l'equivalente della metà di ciò che si concede la proprietaria.[1]

"Proprietaria" non è il termine commerciale più preciso. Ma lo uso per qualificare un lavoro che è poco più che da passacarte. Commercialista, fiscalista e avvocato fanno tutto il lavoro. Lei si limita a qualche telefonata e a qualche contrattazione.[2] Il vero lavoro, quello che materialmente produce introiti per l'azienda, lo fanno i tecnici e gli operai.

Ora, in clinica le operazioni le affidi al chirurgo, e pretendi che sia un uomo di lunga e provata esperienza, e non ti meravigli che il suo stipendio sia adeguato. Quando hai comprato la Mercedes, hai preteso l'ultimo modello con tutti gli optional, e non ti meravigli del prezzo che ti hanno indicato.[3] E invece al tecnico qualificato che ti salva la faccia, ti fidelizza il cliente e ti mantiene in piedi l'azienda, vuoi dare una paghetta da tirocinante?

I preti che si concedono di elucubrare sulla dignità del lavoro, e gli autori di interventi-omelia modello CdO, semplicemente vivono su un altro pianeta. Se vivessero sulla Terra, tuonerebbero furiosi contro coloro che riducono il lavoro ad una merce, e ancor più contro coloro che speculano sulla crisi (o in altri termini, frodano la mercede agli operai nel momento in cui li assumono: "c'è crisi", sottinteso "voglio pagarti poco e niente").

Chiederebbero che fin dalle scuole superiori gli studenti vengano addestrati a riconoscere il proprio valore nel mercato del lavoro e a rifiutare di contrattare la paga per più di venti secondi: se ci vuole più tempo, significa che o il datore di lavoro non ha soldi, oppure non riconosce il valore di chi ha davanti, oppure parte dal presupposto che l'aspirante non ha davvero le qualifiche che vanta di avere.[4]

Tuonerebbero contro le piccinerie di questi sedicenti imprenditori incapaci di rischiare, incapaci di riconoscere il buono, incapaci di valorizzare ciò che arricchisce l'azienda, prigionieri delle loro piccinerie e dei loro stessi discorsi sulla "crisi", la "crisi", la "crisi"... incapaci di notare che a mandare avanti l'azienda non sono loro ma è il personale fatturante, è il "tecnico 10x", sono esattamente i dipendenti che conoscono il mestiere. Incapaci di notare che a far carriera sono solo gli elementi "spostabili" (cioè insignificanti, non il personale "fatturante"): e naturalmente la giungla legale e la torchia fiscale non fanno che consolidare tale sciatteria.

Gran parte della "crisi" è costituita dalla mancanza di quella che don Giussani chiamava "educazione di popolo", senza la quale diventa arduo riconoscere il valore delle persone, arretrando così verso la barbarie.


1) Più l'invidia e l'ostilità degli altri operai quando prima o poi annuseranno l'entità della paga dell'ultimo arrivato.

2) In Italia la contrattazione è un giochino psicologico con conseguenze economiche. Vince chi riesce ad abbindolare o estenuare l'interlocutore. Solo una minoranza assoluta di casi riguarda lo scambiare benefit contro soldi.

3) E per quanto vuoi contrattare, lo sai benissimo che quella "classe S" ti costa tre-quattromila euro l'anno di assicurazione.

4) La diffidenza come metodo, la sistematica sfiducia preventiva, la presunzione che siano sempre e solo "gli altri" a dover dimostrare di essere validi, non sono imprenditoria ma dimostrazione di incapacità, se non di parassitismo. La difficile arte del valutare un candidato ha i suoi tempi, i suoi costi, la sua inevitabile percentuale di fallimenti: chi disconosce tale arte, sta "in piazza" abusivamente.

sabato 24 settembre 2016

Bassa specializzazione

Quando dico che i professionisti dell'ottimismo mi fanno cagare più di un Tir di purganti mi etichettano come lamentoso. Il Buon Ciellino, a detta loro, dev'essere sempre sorridente, positivo, ottimista.

Si consideri dunque il caso di queste due mie conoscenti. Stessa età - prossime agli anta - stessa formazione scolastica, diverso destino. Una ha la fortuna di lavorare come segretaria presso un Importante Studio, mezza giornata e poi in meno di dieci minuti a piedi è a casa: sposta scartoffie, fa fotocopie, riceve telefonate, annota appuntamenti. Lo stipendio le consente di vivere da sola in un grazioso appartamentino senza dover fare troppi sacrifici, anzi, allestendolo con un sacco di carabattole da ragazzina sdolcinata - e con puntuale frequenza dall'estetista.

La seconda è già tanto che non abbia ereditato i debiti di famiglia. Dopo aver penato per anni per emanciparsi e vivere autonoma, si è ritrovata senza lavoro e senza soldi. Senza soldi perché spendeva tutto dall'estetista e per delle carabattole da ragazzina sdolcinata. E la seconda caratteristica comune è che anche lei non può far altro che un lavoro a bassa specializzazione. Lavoro che non si trova perché quel poco che rimaneva a bassa specializzazione è stato già agguantato da un crescente popolo di disperati e di immigrati.

Nell'imbattersi in questi casi ci si rende conto di quanto l'Italia, nel corso di una sola generazione, sia regredita - e continui a regredire - verso livelli centrafricani. Diminuiscono lentamente i posti di lavoro che non richiedono particolari competenze (non ci vuole chissà che laurea per far fotocopie e spostar scartoffie), ed aumentano gli aspiranti lavoratori senza competenze.

Nei telegiornali si affannano a parlare di disoccupazione, quando in realtà il problema è dell'esercito di inoccupabili, di persone che possono al più andar bene per lavori di bassa, bassissima specializzazione, senza particolari responsabilità, senza obblighi di continuità. Se la segretaria si assenta, non è insostituibile; con una sguattera in meno, il ristorante regge ancora la serata; una telefonista in meno al call-center fa solo aspettare qualche minuto in più i clienti; qui nel paesetto la donna delle pulizie è già tanto che prenda quattro euro l'ora, ed anche la badante è facile da sostituire.

Così, quando arriva la penosa domanda: "sai per caso di qualche opportunità di lavoro?" non chiedo neppure cosa sappiano fare. Il diploma di maturità - e spesso perfino la laurea - non è neppure sinonimo di decente conoscenza della lingua italiana parlata e scritta. Le opportunità sono già state tutte arraffate dal crescente popolo di non specializzati, mentre gli specializzati arrancano perché il titolo di studio non è sinonimo di saper lavorare e neppure di sapere cosa serve per lavorare. Non saranno certo i sorrisi positivi e ottimisti a creare nuovi posti di lavoro a bassa specializzazione per gli inoccupabili italiani.

giovedì 22 settembre 2016

Looney Tunes al Signore

Entrando in una qualsiasi chiesa parrocchiale si viene generalmente colpiti dallo squallore. Parrocchie-garage adornate di cartelloni, impianti di amplificazione, candele elettriche a gettone, seggiole sparse, manutenzione sciatta. Magari proprio accanto a opere d'arte sacra di altri tempi, in modo che si noti bene la stridente differenza.

Non mi meraviglio più dei capannelli di vecchine che stanno in chiesa a prendersi un po' di frescura e a chiacchierare di robette frivole. Nè del fatto che nessuno faccia più caso alla presenza del Santissimo. Né dell'arredo e dei colori che sembrano gridare che la chiesa è uno scalcinato ritrovo sociale per anziani annoiati, e che il Tabernacolo è stato rilocato in una cappella laterale perché presenza reale ma sgradita ai villeggianti.

La Messa domenicale si trascina stancamente. Il prete sembra aver organizzato una specie di gioco-recita: io dico questa formula, voialtri rispondete con quella formula lì, e poi quando ve lo indico inventate qualche bella "frase spontanea". Le formule sono imbottite di paroloni di cui non si capisce più il significato (perché dire "Signore, pietà" se il Signore è buono? cosa significa "rendere grazie"? nessuno sa spiegarlo in parole semplici?), e la predica è ancor più astratta: "bisogna dare più spazio all'amore". Quale spazio? Quale amore? Perché?

Durante la stessa predica, il parroco trippone riesce involontariamente ad interrompere uno dei miei tanti sbadigli affermando all'improvviso, senza alcun nesso con ciò che diceva (salvo forse l'assonanza di qualche sillaba), che ci sono tante case "morte" e che bisogna "riempirle di vita"... poi precisa: "non si possono tenere inutilmente sfitte". Ah, ecco. Sta usando la predica per influenzare qualche commercio immobiliare.

Mi ripeto mentalmente che sto lì dentro per assicurarmi la Messa di precetto e la Comunione. Ma non basta più a far finta di non vedere lo scempio. Lui dice una formula, noialtri rispondiamo con una formula. Una volta erano formule liturgiche, stracariche di significato, imbottite della santità di innumerevoli generazioni di anime che le avevano prese sul serio. Ora, invece, suonano perfettamente imbecilli. Lo scenario - meno di metà dei banchi occupati alla principale celebrazione domenicale - non fa che confermarlo. Lo stupidissimo canto costruito praticamente sulle note di Looney Tunes sembra introdurre più Daffy Duck e Bugs Bunny che la consacrazione eucaristica: timpa tumpa timpa, osanna nelle altezze, palle palle guglia, ma che palle in Puglia...

Alle Messe del movimento si poteva ancora invitare qualche amico dicendo: guarda, questa è liturgia, mica la solita recita annoiata di filastrocche idiote. E pure è una spina nel fianco la costellazione di canti deprimenti (come Povera voce) che hanno un valore solo per chi ne ha vissuto tutta la storia (le ultime generazioni di ciellini le cantano in maniera sempre più stancamente trascinata rispetto a quelle che si beccavano le espulsioni dal seminario, le sprangate e le molotov). Ora invece anche le Messe del movimento, per un malinteso spirito di ubbidienza a vescovi e parroci, si sono adeguate al ritmo da fabbrica di sbadigli.

Ma la staffilata più dolorosa è vedere la fila per la Comunione, gadget obbligatorio almeno quanto lo stringere le mani sudate al maggior numero possibile di presenti. Il peccato personale è stato abolito: i peccati li commettono sempre "gli altri", per cui tutti ma proprio tutti sono degni della Comunione. Mi è capitato qualche volta di restare al posto, unico in tutta l'assemblea a non poter fare la Comunione, mentre la marmaglia di novelli padrepii e santeterese andava en masse a prelevare il sacro gadget.

La liturgia è un indicatore straordinariamente preciso della fede vissuta.

lunedì 19 settembre 2016

Strategie didattiche

Una volta, nelle scuole, c'erano solo il preside, gli insegnanti e gli studenti. I termini dicevano esattamente tutto: al preside tocca presiedere, agli insegnanti tocca insegnare, agli studenti tocca studiare. Oggi invece è tutto un valzer di super presidi, registri elettronici, corpi docenti, sostegni e tutoraggi, debiti formativi, interdisciplinarietà, personale ATA,[1] corsi di aggiornamento, anni di prova, collegi docenti, lavagne elettroniche e strategie didattiche...

Una volta, se lo studente si beccava un'insufficienza, era colpa sua: o incapace di studiare, o svogliato. Oggi invece l'insufficienza è colpa del docente che non ha saputo attuare una strategia didattica[2] adeguata a promuoverlo.[3] Il diciotto politico dei sessantottini è diventato legge nelle scuole di ogni ordine e grado.

La scuola italiana in pochi decenni si è ridotta ad un triste e affannato teatrino appestato dalla burocrazia. Insigni docenti si affannano in stupidi progetti d'istituto e attività extrascolastiche (a cominciare dall'immancabile spettacolino teatrale, naturalmente "interdisciplinare") per guadagnare una sorta di premio produttività di poche centinaia di euro[4] (con ampie scorrettezze e fratricidi di contorno: il premio è solo per la minoranza dei "migliori" docenti e ATA). Senza contare quegli insulsi "scambi culturali" consistenti, se va bene, nel farsi la gitarella all'estero spacciandola per attività di lavoro. E attenti alla suprema cazziata dal preside: perché le lezioni devono limitarsi rigorosamente e asetticamente al libro (ma allora a che serve pagare un insegnante visto che la lezione frontale può essere eseguita con un registratore e le interrogazioni con questionari prestampati?). Il tutto condito dallo strapotere dei presidi che possono far fuori chi vogliono, tranne... i docenti più meschini e inutili.

Proprio mentre veniva meno l'educazione di popolo invocata dal don Giussani, la scuola ha rinunciato a educare per limitarsi a istruire, dopodiché ha rinunciato a istruire per limitarsi a diplomare. A suon di elaborate "strategie didattiche" (con un rateo di successi da far ridacchiare Wyle E. Coyote), la scuola dovrebbe far diventare entusiasta, acculturata e intelligente questa pigra gioventù di selvaggi con telefonino. E noialtri ci si meraviglia che i 'gggiovani giungano alla maggiore età conoscendo un vocabolario di appena trecento parole.


1) Amministrativo, Tecnico, Ausiliario: la versione moderna dei bidelli e della segretaria.

2) Le strategie didattiche sono vincenti - per quantità e qualità - come il Gratta e Vinci.

3) Una non trascurabile percentuale di studenti ottiene miracolose promozioni dovute a fattori esterni, come ad esempio il far quadrare le statistiche della scuola.

4) In certe scuole l'entità del premio dipende dalle attitudini al leccapiedismo dei docenti.

giovedì 15 settembre 2016

Dove rischia di finire a parare il carronismo

A margine di quanto scritto lunedì e martedì scorso, c'è da segnalare un altro articolo sulla foga di farsi apprezzare dal mondo.[1] Buona lettura.


1) «Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15,18-19). «Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia» (1Gv 3,13). Lo sguardo positivo sulla realtà non implica il mendicare strizzatine d'occhio dal mondo.

lunedì 12 settembre 2016

Pericolosa assemblea di nemici del movimento

Qualche giorno fa ad un'assemblea degli universitari del movimento di Comunione e Liberazione, don Pino (un "pezzo grosso" del movimento) ha citato l'assemblea che si terrà a Bologna il 25 definendola "pericolosa", ed etichettando l'organizzatore come "il papa dell'Adriatico", addirittura un "nemico" del movimento.

Suo malgrado ha stuzzicato la curiosità degli universitari della Cattolica. Che magari avevano anche letto la presentazione (riportata da Socci) senza far troppo caso al volantino. Che ora invece avranno compulsato con attenzione e magari discusso sottovoce, furtivamente, nei corridoi o nei bagni, stando attenti a non farsi notare dai capetti.

È come quarant'anni fa. Solo che all'epoca si temevano i comunisti, "pericolosi" e "nemici". Oggi si temono i carroniani, che ti considerano "pericoloso", "nemico", seguace del "papa dell'Adriatico" (perbacco!), magari anche trotzkista.

Siamo dunque passati alla fase successiva del "prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci".



martedì 16 agosto 2016

Fiabe moderne e stati d'animo collettivi

Il film Attacco al potere (Olympus has fallen) del 2013 è una delle numerose riedizioni della classica fiaba americanista autoassolutoria intesa a veicolare il messaggio: siamo brutali ma -vedete?- è necessario. L'esercito fa sempre la sua figura di carne da macello guidata da generali impulsivi e incompetenti, per cui ci vogliono le maniere forti di qualche manipolo di eroi giacché il nemico è fortissimo e astutissimo, guardate come facilmente riesce a prendere la Casa Bianca.[1]

Il Presidente è il coraggioso e intrepido difensore della Costituzione, circondato naturalmente da altrettanti "santi laici" pronti a versare il proprio sangue affinché il supercattivo di turno non riesca ad utilizzare le super potentissime armi segretissime che annichilirebbero anzitutto gli Stati Uniti.[2]

Naturalmente è indispensabile un eroe solitario pronto a tutto, specialmente agli insperati colpi di fortuna come l'avere sempre a portata di mano armi e munizionamento, eccellente in colpi di karate e randellate, capace di schivare proiettili, bombe e missili, pronto ad uccidere con la stessa nonchalance con cui pigia il tasto dell'ascensore.

I colpi di scena consistono nel rivelare che il nemico aveva preso ulteriori precauzioni contro i nostri eroi e provveduto a numerose inutili stragi e devastazioni, specialmente simboliche,[3] in modo da prolungare il film fino ai canonici 90-120 minuti, per mostrare come il mondo viene salvato all'ultimo secondo utile - mai una volta che il timer venga bloccato a 00:00:05 o a mezzo minuto.[4]

Nella fiaba sono naturalmente previsti gli intermezzi dello show dei sentimenti del super eroe e del super presidente, e si avverte nella trama che il produttore ha dovuto ammorbidire parecchio la già accettabile sorte del pargolo presidenziale.

In pratica è una storietta costruita peggio di un vangelo apocrifo, mettendo al posto dei dogmi cristiani la Costituzione degli USA, al posto della Chiesa un marcantonio palestrato di Presidente simpaticone, e al posto del Redentore uno spavaldo pitbull da combattimento con graziosa mogliettina incinta: il film riesce perciò ad essere ancor più pretenzioso della più trita propaganda sovietica. L'unico motivo per vederlo consiste nell'abbondanza di scazzottate e sparatorie: un po' come il pepe che versato in abbondanza nella sbobba la fa sembrare commestibile.

Siccome è noto che al sottoscritto fanno ridere le sparatorie in giacca e cravatta, quelle che dopo inseguimenti, carambole, mazzate e fucilate i colletti inamidati non esibiscono né una goccia di sudore né una piega, mi sono permesso di guardarne anche il sèguito, Attacco al potere 2 (London has fallen), del 2016.

La trama è identica, con qualche modifica esclusivamente geografica: il super terrorista era nordcoreano nel primo film e mediorientale in questo, e la scena si svolge a Londra. Hanno rifatto il brodo con lo stesso osso ma stavolta, per pepare di più la trama, c'è anche il Presidente che guida l'auto in un inseguimento e spara qualche fucilata: come vedete è umano come voi, come noi, come il supereroe, ed è pronto a sacrificare la propria vita per la Costituzione e per il prossimo (cittadino americano).

Se nel primo film la connotazione politica era anti-nordcoreana per giustificare l'esistenza e il dispiegamento dell'enorme apparato bellico degli USA nelle zone più improbabili del mondo, nel secondo si intende dare una lezione all'Unione Europea pre-brexit, aggiungendo en passant una gratuita strigliata ad un berluscoide che invece di andare al funerale di stato porta la sua amante di meno di metà dei suoi anni a una gita turistica esclusiva - e naturalmente si becca la sua ricca dose di esplosioni.[5] Il che non stupisce il sottoscritto, convinto che il vero Berlusca sia stato affondato più che dai suoi numerosi errori, dallo scarso indice di gradimento da parte delle centrali di potere d'oltreatlantico.

Per la merkeloide c'è invece una semplice fucilata: benché organica ai desiderata di queste ultime e della dissoluzione, le si lancia il messaggio che è tutto sommato spendibile. Oh, non sono proprio spoiler: il titolo già contiene tutta la trama e simili eventi sono prevedibili fin dalle prime scene. Il messaggio per il presidente francese (che non è un hollandoide "la pera", ma un più astuto successore) è che non saranno risparmiati mezzi per spazzarlo via.

Ai bei tempi le sezioni dei servizi segreti avevano personale che leggeva tutti i gialli e spionaggio pubblicati perché una certa percentuale di questi conteneva nella trama "messaggi" di avvertimento. Lo rivela Volkoff nel suo capolavoro, Il montaggio, romanzo scritto probabilmente per dire ai sovietici di quarant'anni fa: vedete? sappiamo come funziona la vostra rete di influenza qui in Francia. Bisogna essere particolarmente ingenui per pensare che siano idee da vecchio romanzo anziché dinamiche ancora attualissime.

È un segno dei tempi il fatto che Hollywood in tempi di politically correct sforni a ritmo sostenuto film-fiaba intesi a ricordare il neodogma secondo cui il terrorismo sarebbe quasi invincibile e che gli imbelli e distratti europei, al pari degli statunitensi, devono aspettare l'intervento di specialissimi eroi americani esterni alle regolari forze armate e sostenuti da sistemi invincibili, droni, satelliti spaziali, supermissili, super difese elettroniche, super aerei...

Ciliegina sulla torta, il titolo italiano che usa il termine "potere" (non proprio simpatico ai più) sembra suggerire qualche infastidito sottinteso, dimenticando che entrambi i film somministrano un pizzico di antiamericanismo controllato (a mo' di vaccino). Fa parte della ricetta della sbobba, come il pepe.[6]


1) Si dà dunque per scontato che la Casa Bianca sia l'Olimpo del mondo. Ma no, è solo un film... magari i Servizi Segreti nostrani chiamano "Olimpo" il Quirinale o almeno palazzo Chigi...

2) È interessante notare che nella parlata comune il termine "stati uniti" con le maiuscole indica una nazione. Sarebbe come se in qualche posto del mondo dicessero "Regioni Unite" per indicare l'Italia oppure "Cantoni Uniti" per indicare la Svizzera. Nella parlata comune, poi, spesso si dice "America" per indicare gli Stati Uniti, come se inglobassero il Sud America e il resto del Centro-Nord America che non è inglobato nell'"America" statunitense. Uno statunitense qui direbbe: "vengo dagli States". Per par condicio, un italiano in USA dovrebbe dire: "I come from the Regions".

3) Dall'11 settembre 2001 il tipico "terrorista" sfoggia sorprendenti capacità di astrazione e preferisce colpire simboli piuttosto che veri obbiettivi militari, politici, economici, come se desiderasse più la creazione di uno stato d'animo collettivo - état d'esprit - che il rendere inefficace il suo nemico. Ha infatti sparato più video che pallottole e bombe, ma a causa del vigente etat d'esprit è di fatto proibito parlarne, quantomeno a scanso di bizzarre etichette.

4) Il super villain di turno viene regolarmente ammazzato sul posto prima che qualcuno possa interrogarlo. Magari gli si fa anche frettolosamente un "funerale in mare con rito islamico", come normalmente fanno tutti gli eroi hollywoodiani.

5) Se nel montaggio del film avessero tagliato quella rievocazione di Ruby Rubacuori Bunga Bunga, nessuno spettatore italiota avrebbe notato la differenza.

6) La "sbobba" era un economico brodo di osso che il superiore di una certa piccola comunità religiosa preparò per i novizi allo scopo di risparmiare. Dopo la cottura aggiunse un po' di pepe alla brodaglia. Il venerdì successivo ha rifatto il brodo con lo stesso osso, come se ne fossero ricresciute le proprietà alimentari, ma per altre circostanze non fu possibile servir cena per cui riversò la sbobba in un bottiglione di plastica e lo pose in congelatore. Venerdì successivo, nuova ricottura e nuovo bottiglione in freezer. Storia vera, da testimonianze di prima mano.

mercoledì 15 giugno 2016

Vita nel paesino - 3

Ho fatto una scoperta clamorosa: l'insulsa sagra del paesino va osservata dall'alto. Guardare da qualche centinaio di metri di distanza quel formicolìo di gente che si dà da fare per socializzare, oppure per estrarre qualche euro (più o meno moralmente) dalle tasche altrui, o ancora per esibire la propria insignificanza e la propria noia di vivere. Si affannano come formiche senza un perché. Cercano con zelo senza sapere esattamente cosa stanno cercando. I più giovani ciondolano in giro con un mostruoso senso di solitudine, con la regola non scritta che la festa serve come occasione per fidanzarsi - e le rarissime volte che ciò avviene, dura poco.

Guardare dall'alto è altamente istruttivo anche dal punto di vista teologico. Puoi osservare i parrocchiani dare il meglio di sé in bestemmie e volgarità, ed anche ubriachezze, asineria, tirchieria... a poche ore - a volte anche solo pochi minuti - di distanza dall'accostarsi alla Comunione, divenuta da tempo il gadget obbligatorio per chi partecipa alla Messa.

A proposito di Messa: il parroco, in un impeto di progressismo chiesastico, comanda che stavolta la preghiera dei fedeli sia spontanea anziché preconfezionata dal foglietto. Una delle anziane parrocchiane si alza: «preghiamo per l'onestà dei commercianti». Mentre torna al posto viene bersagliata da numerosi sguardi assassini e sopracciglia inarcate, l'ira funesta è palpabile. La nonna è sorpresa: ma come? fra poco faranno la Comunione, e si preparano sprizzando veleno da tutti i pori? Non è con lei che dovevano prendersela, ma col provincialismo delle Preghiere dei Fedeli ridotte a "prego suocera (Dio) affinché nuora (popolo) intenda". Dopotutto se si prega per la buona riuscita della raccolta differenziata, per il rispetto degli animali, per il maggior uso delle biciclette al posto delle automobili, si potrà pur pregare anche perché sia meno rara l'onestà dei commercianti, no?

Uno dei ragazzi del paesino aveva studiato legge. Voleva diventar notaio (più esattamente: entrare nella casta notarile). Dopo un fiume in piena di regalie e omaggi al notaio presso cui faceva praticantato ("due interi maiali, suppergiù", dice la mia fonte con un guizzo di perfidia), il posto andò al figlio di quest'ultimo anziché all'aspirante praticante. Che da allora - qualche decennio - ancora non ha digerito rassegnazione e odio, complici le voci del parentame nel paesino.

Qualche settimana fa mi ritrovavo in pizzeria con alcuni amici: un obbligo sociale non sempre scansabile. Tutta la sera a parlare di insulsaggini. Diete insopportabili. Dicerie sull'amica assente. Previsioni sulla trama di una fiction televisiva. Le favolose meraviglie inglesi (uno di loro l'anno scorso ha lavorato quindici giorni presso la Perfida Albione ed è tornato folgorato, neanche fosse stato nominato erede al trono). La ex catechista della parrocchia che accusa la Chiesa di aver creato l'omofobia, e s'imbestialisce quando le do pan per focaccia rispondendole: ma hai mica un conflitto d'interessi? (seguirà sua interminabile predica che sembra copiata dal sito dell'Arcigay).

I nonni mi procurano nientemeno che un appuntamento galante: una serata in pizzeria (scelgo la stessa pizzeria sopracitata in modo da lanciare agli altri amici il messaggio-bluff: "la prossima volta sarò occupato") con la figlia degli ex vicini di casa. Una nullafacente con cultura strettamente televisiva ma in compenso un ricercato make-up, che aspetta di trovare un principe azzurro dotato di appartamento e di adeguato stipendio. Una serata mortalmente noiosa con l'ennesima persona incapace di esprimere un concetto astratto.

Non sono vecchio, eppure sono già in un'età in cui mi ritrovo a lamentarmi del mostruoso degrado della scuola italiana. Perché mai per raccontare un film hanno bisogno di elencare confusamente pezzi della trama? Perché mai quando mi esprimo con una metafora credono che io stia cambiando discorso? Perché mai si scaldano tanto quando uso qualche termine non televisivo? Perché mai sono incapaci di mantenere viva l'attenzione per più di pochi secondi?

Il paesino, questo mondo piccolo, è la miniatura ben riuscita della società italiota. Manca anche qui - soprattutto qui - un'educazione di popolo, che don Giussani invocò inascoltato.

domenica 12 giugno 2016

Vita nel paesino - 2

Ormai tutto il paesino, tranne il diretto interessato, sa di quella nullafacente che ripetutamente tradisce il marito cercando di capire se qualcuno meno cretino di lui e con uno stipendio migliore sia disposto a prendersela finché morte non li separi. Impresa difficile, visto che il mercato delle mogli di seconda mano è saturo da parecchi decenni (risultato prevedibile del "divorzio legale"), e ancor più quello delle aspiranti mogli nullafacenti e che hanno come unico asset l'equipaggiamento riproduttivo (magari non più rigoglioso).

C'è poi l'imprenditore furbo, l'unico caso che mi abbia mai fatto pensare che il fisco italiano almeno una volta ha avuto ragione a salassare per bene qualcuno. Vantava conoscenze altolocate dappertutto, ma si affannava sempre a chiedere lavori e favori ai soliti vecchi amici. Pareva sempre pronto a concludere l'affare del secolo, ma poi lui e la moglie si ritrovavano a mangiare a casa della suocera perché dopo aver manutenzionato la moto e la barca non restavano più soldi. La moglie è nullafacente, come si poteva già intuire.

C'è quindi la tipetta stufa di accudire mamma e sorelle (nullafacenti e non più giovani), che sta tentando concorso su concorso per trasferirsi in qualche Grossa Città Molto Lontana. Il che porta via soldi. Per cui, nonostante la giovane età, è diventata una sorta di zio Paperone in miniatura.

C'è quindi uno che aveva aperto una specie di panineria. Dopo qualche mesetto, chiude in fretta e furia, ufficialmente perché i clienti scarseggiano, ma magari il fisco e l'antisofisticazioni c'entrano qualcosa. Non ha più neppure i soldi per pagare l'affitto, e passa dunque ad abitare con i suoi inventandosi un lavoretto in nero. C'è da scommettere che prima o poi la Guardia di Finanza farà una visitina all'officina improvvisata nel cortiletto.

C'è quindi un altro che va in giro aggiustando lavatrici per pochi euro. Non sono molte le lavatrici del paesino che abbisognano di riparazioni, per cui per gran parte del tempo è a casa davanti alla TV in attesa che la mamma prepari da mangiare, o al telefono con la fidanzatina.

Il vicinato soffre di devastante invidia. Mi vedono uscir di casa con la nonna, e rientrare un paio d'ore dopo carico di sportine e pacchi. Hanno visto qui l'imbianchino armeggiare con secchi e pennelli per parecchi giorni. Hanno visto quello dei mobili andare e tornare due o tre volte con gli attrezzi. Hanno associato la mia presenza ad un fiume di soldi piovuto addosso ai nonni. E si è diffusa come un lampo la notizia che i nonni hanno pagato sull'unghia il pattuito senza far storie.

Così, una delle vicine si è fatta avanti e ha chiesto se serve una mano per i servizi di casa, a soli venti euro l'ora. La nonna, allibita: venti? La vicina allora ha detto che andavano bene anche dieci. La nonna, sorpresa: dieci? La vicina allora ha fatto la sua ultima offerta: cinque euro l'ora, su, e non se ne parla più. La nonna ha finalmente trovato modo di dirle che non ne abbiamo bisogno. Del resto una cinquantacinquenne obesa non sembra molto adatta ai lavori pesanti. So per certo che una sua parente prende ben quattordici euro per pulizie che la impegnano per tre ore. In nero, s'intende.

E infine il figlio di uno dei vicini di casa: si è ripetutamente offerto per portar su sportine e pacchi. Più che al lavoro pesante, era evidentemente interessato a guardare con lascivia il contenuto (merendine, birre, salse, insaccati, snack, pasta di buona marca, formaggi, acqua minerale...); posso dirlo con certezza perché l'ho notato più di una volta, in quella sorta di pornografia per poveracci.

sabato 11 giugno 2016

Vita nel paesino - 1

La figlia di uno mi contatta a sorpresa per chiedermi di uscire una sera con lei. Quando inaspettatamente diventi il centro dell'attenzione di una donna, senti puzza di bruciato. Parlando amabilmente del più e del meno al telefono, scopro che la nullafacente figliuola ha bisogno non tanto di compagnia, ma di cinquanta euro in contanti e subito, per pagare un conto arretrato. Più non mi dice di cosa si tratta, e più insisto per saperlo. Infine la sua ingenuità fa filtrare un dettaglio da cui capisco che si tratta dello spacciatore di fumo. Mentalmente ripeto a me stesso più volte: cinquanta euro in fumo? Le dico che per una settimana mi sarà impossibile, lei comincia ad innervosirsi e chiudo abilmente la telefonata prima che degeneri. Ancora non so come dire a suo padre che la figlia virtualmente è già una prostituta.

Un grasso nullafacente con moglie lavoratrice e figli scapestrati riesce a farsi beccare dalla polizia con un po' di roba che doveva solo "consegnare". Voleva solo guadagnar molto senza troppa fatica, e il suo livello culturale non permetteva molta scelta. La moglie ottiene il divorzio, e il nullafacente torna dai suoi e riprende a passare mestamente le giornate suonando il tamburo bongo. Non ci sono infatti molti posti di lavoro per picchiettatori di bongo, né di esperti del portare il cane a pisciare.

C'è poi una che ha eroicamente deciso di convivere col suo compagno. Lei nullafacente, e lui aiuto-cuoco a 150 euro settimanali in nero. I due sono insieme da un mese, il rapporto va avanti su Facebook, si sono già incontrati dal vivo ben due volte. Lui abita infatti a due ore di treno e autobus, vive con la madre e col fratello, nullafacenti che beneficiano del suo non proprio ricchissimo stipendio. Cosicché lei ha chiesto alla vicina di casa informazioni per qualche posto di lavoro da almeno 800 euro mensili coi contributi pagati, per poi chiedere anche a me. Le ricordo che basteranno a stento per pagare affitto e condominio: lei s'imbestialisce e la telefonata finisce male.

Passiamo quindi al figlio nullafacente di un noto medico della zona. Dopo aver sfasciato anche la terza auto che gli aveva comprato il padre, si è giustamente sentito dire che i rubinetti sono chiusi e che se proprio ci tiene a guidare dovrà lavorare e comprarsela e soprattutto... smettere di guidare come un idiota. Il padre non aveva previsto che l'auto si può anche sposare. Il figlio convola a nozze con una nullafacente benestante dotata di autovettura Renault. Sfascerà la Renault e la successiva Citroën, e il matrimonio affonderà prevedibilmente per disaccordi automobilistici.

sabato 9 aprile 2016

Il tecnico 10x

Nel gergo business americano[1] un ottimo tecnico o ingegnere viene qualificato "10x" (ten times, tradurrei con "dieci per") per indicare che fa da solo il lavoro di dieci persone, o che risparmia all'azienda di assumere dieci persone - non perché lavori ottanta ore al giorno, ma perché a parità di impegno profuso ha la capacità di ottenere molti più risultati di un "normale" tecnico o ingegnere,[2] speciale capacità che in genere ha acquisito perché incrocia passione, talento naturale ed esperienza.[3] Dunque è un parametro qualitativo piuttosto che quantitativo.

Gli americani come al solito scoprono l'acqua calda: dopo aver ridotto la valutazione di una persona al numero di caselline del curriculum (aumentabili a suon di corsi, master, specializzazioni), si accorgono che i talenti vengono distribuiti da Dio senza rispettare schemi con caselline e numeretti. Ciò di cui mirabilmente ancora non si rendono conto è che il lavoro non è una merce da comprare laddove si possa ottenere più quantità al minor prezzo: eppure, pragmatici, elucubrano attorno all'idea del tecnico 10x, arrivando a pagargli cifre esorbitanti, perfino nel caso degli interns (tirocinanti) nella speranza di beccarne qualcuno dal mucchio.[4]

Le dimensioni dell'azienda non sono il vero nocciolo del problema. Se hai deliberato di aver bisogno di un tecnico 10x, significa che non puoi permetterti di affidare il tuo progetto ad un gruppo di tecnici normali, tanto meno ad un tecnico normale o mediocre. Il vero nocciolo del problema è saper riconoscere un tecnico 10x prima di assumerlo.[5] Ed infatti vige il proverbio: "in serie A riesci ad assumere giocatori da serie A, ma in serie B finisci sempre per assumere giocatori da serie C". Nel senso che a danneggiare l'azienda è la sciatteria - o in termini più commerciali, l'incapacità di investire sulla qualità, poiché infatti è molto più facile rifiutare di assumere un ottimo candidato che accettarne uno mediocre, anche se quest'ultimo costerà all'azienda molto di più per le conseguenze di quella stessa mediocrità.

Lamentarsi della "fuga di cervelli" è un prendersela col sintomo piuttosto che con la malattia.[6].


1) Il gergo business italiano eredita i termini del gergo business americano non appena questi passano di moda.

2) La definizione speculare del "10x" è lo "0,1x" - il tecnico o ingegnere che ottiene un determinato risultato in un decimo del tempo normalmente preventivato e senza misure draconiane.

3) Il titolo di studio garantisce al più l'istruzione, non la passione per la realtà e per il proprio lavoro.

4) Le grandi aziende americane hanno capito benissimo che tirocinante non è necessariamente sinonimo di incompetente e perciò mollano volentieri dai 5 ai 10k mensili (4000-7000 di stipendio più 1000-3000 di diaria e altri benefit). In un'altra tabella vedo che le paghe superiori a 100k l'anno (al netto dei benefit) sono pressoché la norma.

5) Mentre è vero che per un'azienda è comodo sfruttare cervelli freschi e motivati per poi liberarsi senza conseguenze (sindacali e legali) di coloro che non tornano utili, c'è anche l'idea di tenersi in squadra un soggetto 10x, pagandolo profumatamente in modo che non fugga verso altri lidi: mentalità onestamente commerciale, cioè capace di riconoscere il valore di ciò che desidera, capace di rischiare i propri soldi per perseguire un obiettivo chiaro: se l'azienda ti propone 50k l'anno è perché ritiene che tu li valga e che con 49k potresti presto essere tentato di andartene da un concorrente (il popolo dei disoccupati è per grandissima parte composto da persone a bassa specializzazione). Ma è una delle poche mode americane sconosciuta in Italia.

6) Nulla togliendo al fatto che l'Italia di oggi è identica alle vignette laiciste sul Medioevo.

giovedì 3 marzo 2016

Aziende costitutivamente già fallite

Per la serie: come gliela spiego al parroco?

Immaginate un'azienda in cui il personale che produce è in minoranza rispetto a quello che amministra. Immaginate che gli operai che materialmente creano la ricchezza "fatturabile" dell'azienda vengano pagati poco e in ritardo, e che magari siano assunti solo per il periodo di tempo strettamente necessario. Immaginate poi che il personale amministrativo sia invece da anni con un contratto solido e stipendio puntuale.

Immaginate i tecnici che lavorano dalle 9 alle 20, mentre il resto del personale lavora dalle 8:30 alle 17:30 con numerose pause caffè e pause sigaretta e spesso - con un alibi o l'altro - sgattaiola via alle 17, alle 16, alle 15:30 (il tecnico invece non può farlo: lunedì bisogna spedire, quindi stasera deve essere già tutto pronto che da domattina bisogna provare)...

Nel corridoio della sede dell'azienda è tutto un andirivieni di "personale non fatturante". Il guardiano tuttofare, poverino, ha dovuto spendere un'intera giornata a conteggiare i posti auto del miniparcheggio sotterraneo e a controllare non si sa cosa dell'ascensore; due ore le ha passate a spiegarlo scherzosamente alla segretaria - una bambolina che se dimentica di pesarsi al mattino dovrà aspettare la sera, dopo che si sarà struccata. Un commerciale ha speso due giorni interi a procurare i panettoni per i clienti e a firmare un paio di documenti; vero è che è uscito alle 15 per andare a fare un prelievo al Bancomat ed è tornato alle 17 giusto in tempo per il caffè (non poteva mica aspettare la fine dell'orario di lavoro per fare un prelievo al Bancomat: in tal caso non avrebbe impiegato due ore, ma solo un minuto). L'altra segretaria, per giustificare la propria esistenza, sta facendo le pulci a tutti i rapporti delle trasferte dei tecnici: accidempolina, uno di loro ha indicato di aver percorso 500 km e invece il ViaMichelin dice che il percorso ottimale è di 492... ora lo chiamo, esigo spiegazioni!

L'amministratore delegato, nel suo studiolo, passa il tempo alternandosi tra Youtube e Facebook, seccatissimo quando deve interrompere tali attività a causa di un messaggino su Whatsapp. Certo, anche coi clienti si comunica via Whatsapp (e sarà per questo che ha lasciato il fischietto di segnalazione messaggini a volume alto). Ma poi lui è quello che Pensa, sapete, lui Pensa, Pensa sempre, Pensa nuove strategie commerciali, Pensa nuovi modi per sfondare sul mercato. Ogni tanto gli tocca fare una riunione (mediamente una al giorno), di un'ora o due ma anche tre, ma non è che una riunione completa sia più produttiva di una interrotta o rinviata. La sua attività più importante è prendere decisioni: capo, consegnare lunedì o martedì? E lui ci Pensa, Pensa, Pensa, e poi ti dice: lunedì! Magari senza nemmeno capire bene di cosa si trattava. Tant'è che alcuni dei pezzi da spedire arrivano solo lunedì sera...

C'è poi l'altro commerciale, che passa ore al telefono per parlare, parlare, parlare delle esigenze dell'azienda ad altri commerciali. Prendiamo una a caso di quelle telefonate: durata esattamente un'ora. Un'ora di lavoro pagata dalle rispettive società perché uno dei due commerciali cerca un Prodotto senza sapere esattamente perché, mentre l'altro cerca di vendergli ciò di cui i suoi capi gli hanno detto di sbarazzarsi alla svelta. Un'ora al telefono per disquisire con finezza ed eleganza sulle caratteristiche più secondarie ("sa, in futuro magari qui si potrebbe pensare di aggiungere questo e quello"), sulla rinviabilità del pagamento... Alla fine -puntualmente- comprano sempre il prodotto sbagliato: in genere quello che costava meno.

Certo, tenere in piedi l'azienda è faticoso: comprare le cialde per la macchinetta del caffè, allestire l'albero di Natale, passare in tipografia a ritirare i cartelli da mettere nella bacheca, telefonare, telefonare, telefonare...

In tutto questo c'è il tecnico, al quale non gliene importa niente del risparmio di ben due centesimi a cialda (costato un giro di telefonate di due ore, ore pagate dall'azienda), non gliene frega niente dell'albero di Natale, non è attratto per niente dalla segretaria profumiera (che comunque non si abbasserebbe a flirtare con un poveraccio come lui). Controlla freneticamente ogni mattina il conto in banca, perché lo stipendio ufficialmente bonificato a inizio mese arriva ogni volta più tardi rispetto al mese precedente, sempre più tardi... Una volta l'accredito sul conto se lo ritrovava l'otto del mese, i commerciali gli dissero che è perché le banche ci mettono dai 3 ai 5 giorni lavorativi per completare un bonifico, e va bene, ma poi l'otto è diventato il dieci-dodici, quindi il quindici-sedici, poi il diciannove-venti, il ventuno è andato infuriato dalla segretaria amministrativa e lei cadendo dalle nuvole: oh, non ti era stato detto che c'è stato un piccolo inconveniente? (si noti l'espressione con verbo impersonale) Alcuni bonifici sono stati rifiutati (di nuovo un'espressione con verbo impersonale), li abbiamo dovuti rifare: non ti era stato detto? (verbo impersonale)... Insomma, lo stipendio di novembre gli è stato accreditato dopo Natale: chissà per quale misterioso motivo il bonifico del suo stipendio era stato "rifiutato" (mica quello delle segretarie, mica quello dei commerciali, mica quello dell'amministratore delegato, no, solo quello dei tecnici). A gennaio-febbraio è andata molto meglio: il 21-22 è arrivato il bonifico senza essere misteriosamente "rifiutato".

Uno dei momenti più odiosi è quando passa qualcuno dei capi a sgridare i tecnici: così non va bene! Cambiate tutto, fate come due mesi fa, e così risolviamo. Oh, sì, certo che risolviamo, ma perderemo altri tre o quattro giorni, proprio adesso che avevamo quasi risolto. Come in una vignetta di Dilbert, in un film di Fantozzi o in un reparto di un GULag, il capo piomba lì, effettua la sgridata (sarà il suo contratto a esigere che faccia scenatacce periodiche), denigra e proibisce tutto ciò che era stato fatto di buono su una cosa, e comanda di rifarla daccapo al più presto, vuole vedere un prototipo funzionante entro domattina, anzi, già entro stasera. Che eroe. Come a dire che la nave è quasi pronta per il varo, no, smontate tutto, voglio un sommergibile: che ci vuole? Tanto sempre in mare deve andare, no? Domani bisogna fare già un'immersione di prova, e comunque ad ammorbidire il cliente per tutte le variazioni ci penso io...

Esatto, il cliente. Il cliente ha lo stesso problema. Troppo personale "non fatturante", poco personale "fatturante". Il cliente non sa quello che vuole, però vuole lo sconto (che non è mai abbastanza, qualsiasi sconto sia), vuole dilazionare il pagamento (alle calende greche), vuole poter annullare l'ordine dopo la consegna (tipo: dopo aver mangiato la torta, restituirla al pasticciere chiedendo indietro i soldi), vuole la garanzia che tutto vada bene da qui fino alla consumazione dei tempi (tipo: l'autovettura garantita immune alle multe fino alla rottamazione), vuole che l'investimento fatto conservi il suo valore (tipo: un pacchetto di sigarette che fumandone trentacinque al giorno gli duri comunque un mese e mezzo)...

I tecnici cercano di far notare che per la buona riuscita dell'Ambizioso Fumoso Progetto occorrono alcune indispensabili caratteristiche, senza le quali sarà certa solo una Gran Figuraccia Mondiale: niente da fare, il commerciale è inflessibile: costa troppo, non è garantito, non è durevole, dovete arrangiarvi con quel che c'è, ma poi tanto la scadenza sicuramente verrà rinviata e avrete tempo per pensare ad un'altra soluzione (i capi e i commerciali hanno sempre ben altro a cui pensare). Poi nel pomeriggio ci pensa un po' e indìce una riunione. Due ore di conference call (oggi così si chiamano le "riunioni telefoniche") più altre tre riunioni nella settimana successiva, coinvolgendo anche Lo Chiùmann ("l'addetto Human Resources", cioè delle risorse umane): infine si decide di comprare il Pezzo Aggiuntivo dalla Sconosciuta Rinomata Azienda, e due giorni prima di consegnare al cliente ci si accorge che non può essere integrato bene nel prodotto. Anziché fare un totale di otto ore di riunione moltiplicato otto persone (per un totale di 64 ore lavorate e pagate dall'azienda), sarebbe stato molto più facile, più veloce e più economico comprare tutte e dieci le versioni del Pezzo Aggiuntivo e lasciare un tecnico a provarle un pomeriggio tutte insieme per stabilire la più adatta.

Qualche tempo fa definivo "virtualmente fallita" un'azienda che al minimo imprevisto non riesce a pagare la mercede agli operai.

Ora vorrei qui definire "costitutivamente fallita" un'azienda in cui il personale che produce è in minoranza rispetto a quello che amministra. Minoranza numerica, minorata di retribuzione, torchiata quanto agli orari di lavoro e compiti da svolgere. Non ci vuole chissà che esercito di segretarie, commerciali e amministratori delegati per tener su un'azienda (nonostante le sei mafie italiane tra cui burocrazia e fisco). Grosso modo il rapporto fra personale fatturante e non fatturante dovrebbe essere dell'ordine di dieci a uno, venti a uno, o ancor più se l'azienda è grande, tanto più nell'epoca dei computer. Se all'azienda interessa davvero autosostenersi, blindarsi, magari perfino guadagnare, a rigor di logica il personale "fatturante" - quello che produce materialmente profitto per l'azienda - va coltivato, incentivato, premiato e mantenuto sufficientemente numeroso in modo che non si scateni l'apocalisse qualora uno degli elementi migliori venga a mancare. Per qualche motivo misterioso (nel senso di mysterium iniquitatis) avviene invece il contrario: al punto che tutti i grandi e piccoli manager sognano di esternalizzare tutto: cioè non aver più personale "fatturante", subappaltare ogni cosa tenendosi solo il core business (cioè solo l'apparato burocratico).

Come parametro mi è già sufficiente che il personale fatturante sia numericamente sproporzionato (in senso inferiore) al non fatturante. Già questo è un pessimo segnale, poiché quando si parla del know-how di un'azienda, si parla più di persone all'opera che di faldoni di documenti tecnici. Segretarie, factotum, commercialisti, sono tutto sommato facilmente intercambiabili. Un operaio che abbia familiarità con la produzione, no. Per formare un tecnico con dieci anni di esperienza sulle tue produzioni, occorrono per l'appunto dieci anni dentro la tua azienda. Se cambi la segretaria o il fiscalista, in poche settimane sarà a pieno regime; se ti viene a mancare un tecnico, il suo sostituto dovrà acquisire tutto il know-how del precedente. E questo vale anche per i gradini più bassi: magari ti accorgi, quando è troppo tardi, che il nuovo esperto magazziniere non sapeva che tale fila di scaffali soffre umidità e succedono pasticci, o che il nuovo tecnico ti ubbidisce alla lettera senza sapere che sulla tua fissazione delle dimensioni minime occorreva fingere di non aver sentito: anche questi dettagli facevano parte del prezioso know-how aziendale.

Mi capita di osservare sempre nuovi casi di aziende italiane costitutivamente già fallite: l'ultimo è stato quello di un'aziendina con tre tecnici "a progetto" e otto dipendenti fissi tra segretarie, commerciali, tuttofare, responsabili, ecc. Consegnato il progetto, i tecnici restano senza lavoro e i dipendenti fissi... "amministrano" il parco clienti - cioè si sollecitano i debitori, si tengono lontani i creditori, si compila l'agenda delle scadenze, si fa una riunione di due ore per parlare di un possibile nuovo cliente, si fa un lungo giro di telefonate per sapere chi è che vende le cialde del caffè (per la macchinetta in sala riunioni) a minor prezzo, si annotano i posti auto da liberare nel parcheggio comune... Quando c'è da fare un intervento "tecnico" presso un cliente, si assolda un "tecnico" per lo stretto tempo necessario a fatturare e poi via di nuovo a sfogliare Facebook e Youtube (e la giostra continua a girare - seppur più lentamente - perché si campa di rendita sui clienti acquisiti in precedenza, con quella cosa che chiamano "contratto di manutenzione", che consiste nel far pagare al cliente una quota fissa annua per dargli il diritto di telefonare in caso di guai).

Dovrei scusarmi per la prolissità, ma è inevitabile nel tentare di spiegare l'andazzo al parroco. Che non ha mai lavorato in vita sua. Non sa cosa significhi barcamenarsi per pagare il mutuo (per avere un tetto devi versare puntualmente per trent'anni una quota pazzesca del tuo stipendio, senza poter contare su benefattori e sostenitori). Non conosce il brivido di furore allo sportello bancomat nel vedere che lo stipendio è in ritardo anche questo mese. Non sa cosa significhi dover accollarsi responsabilità non pagate, straordinari non retribuiti, figuracce causate dall'incompetenza di chi lo paga, stress e malattie dovuti al non potersi permettere di rinviare al martedì mattina un intervento tecnico del tardo lunedì sera... Non sa cosa significa spendere due, tre, quattro ore al giorno in macchina o nei mezzi pubblici per andare a prestare servizio per poi sentirsi chiedere retoricamente: "e non potevi partire prima? e non potevi prendere il treno precedente? e non sapevi premunirti?" Non sa cosa significa andare a lavorare con la febbre a 38 perché il suo eventuale "sostituto" del giorno è un imbranato che sfracellerebbe tutto il lavoro pazientemente organizzato. E soprattutto non sa cosa significhi burocraticamente avere un lavoro (parlo sempre dell'àmbito privato, non del settore pubblico per gran parte parassitario).

Il sottinteso che il parroco non capisce è che lo scopo del personale amministrativo, ancor prima che "amministrare", è piuttosto quello di fare il diavolo a quattro per rendere facile la vita a chi materialmente produce profitto per l'azienda.

Ciò che il parroco fa enorme fatica a capire è che non può cavarsela dicendo che pigri, furbetti e menefreghisti li trovi dappertutto, perché il danno maggiore viene dalla diffusissima mentalità secondo cui il personale "fatturante" è un costo da comprimere in ogni modo, mentre quello non fatturante è una spesa normale e inevitabile, è un "beh, pazienza". Col risultato che nell'aziendina che sulla carta "produce", paradossalmente il personale amministrativo è inamovibile, insostituibile e incomprimibile, mentre i tecnici che materialmente tirano fuori il "prodotto" sono da assumere solo quel tanto che basta per fatturare: un'azienda costitutivamente già fallita, a galla solo perché sta ancora raschiando il fondo del barile.

Un amico mi telefonava tutto contento: sai, a quarant'anni ho finalmente un Posto Fisso, al colloquio di lavoro hanno detto che cercavano proprio un curriculum come il mio, comincio già lunedì. Ma sì, festeggia pure. Quel che non sapevi ancora è che con la legge Renzi il contratto a "tempo indeterminato" non è più "indeterminato", anche se continuano a chiamarlo così. L'azienda, in caso di necessità (cioè quando i commerciali si stufano di bonificarti lo stipendio) può licenziarti, dandoti come buonuscita alcune mensilità (una per ogni anno lavorato, con un tetto massimo). Sono cose note solo a chi lavora nel settore privato (i parroci - e chi lavora nel carrozzone pubblico - non riescono nemmeno a immaginarlo).

Il primo giorno di lavoro l'amico scopre che nonostante abbia cominciato un "periodo di prova", gli chiedono di essere già produttivo entro fine mese. Scopre che i requisiti che avevano chiesto erano talmente generici che non c'entravano nulla col suo curriculum (questi aggeggi li devo progettare, costruire, manutenere, utilizzare, o soltanto spostare?). Scopre che in due settimane andrà via un tecnico deluso, che perciò centellinerà con diffidenza il "passaggio di consegne" in modo da rimanere ancora a lungo l'unico che può risolvere certi problemi (ha paura che si dimentichino di pagargli gli ultimi stipendi, TFR e liquidazione). È un contratto "a tempo indeterminato" (cioè, secondo la legge Renzi, abortibile a discrezione dell'azienda), dunque si dà un gran da fare: e ciononostante avanza a passo di formica, sia per la diffidenza di chi deve formarlo, sia perché non è esattamente la sua specialità per la quale credeva di essere stato assunto, sia perché di questi tempi non si sputa su un'opportunità di lavoro.

Dopo alcune settimane frenetiche in cui comincia ad assaggiare anche l'irrisione di capi e capetti (cioè di "personale non fatturante"), la mal simulata espressione sorpresa dei commerciali ("gli straordinari vengono pagati solo se li richiede il cliente, non ti era stato detto?" - notare il verbo impersonale e i vari sottintesi) e qualche altro preludio al mobbing, comincia a domandarsi se è tanto disperato da dover rimanere lì. Si ricorda che nel contratto era stabilita la risolvibilità senza preavviso per entrambe le parti (forse per giustificare il "periodo di prova"), e perciò un giovedì sera annuncia le proprie dimissioni, commettendo solo il piccolo errore di dire "da lunedì non ci sarò" anziché "da domattina non ci sarò". Quello che segue è il più tragicomico venerdì nero che mi abbiano mai raccontato: escalation di telefonate da diversi capi, responsabili, sottocapi e Chiùmann, velate minacce, mal trattenute imprecazioni contro la sua "mancanza di serietà", perfidi sottintesi, "casuale" presenza di avvocati nei corridoi dell'azienda... e poi dalle 17:40 finalmente calma piatta e un silenzio da film horror. Alle 18 va via, e dubito che riuscirà a vedere fino all'ultimo centesimo i soldi che gli spettano.

Sono cose che il sorridente parroco - che non ha mai lavorato in vita sua e discende da una famiglia di comodi impiegati statali - non può capire, non può nemmeno immaginare. Il parroco sa che c'è la crisi e che bisogna lavorare, ma non avendo mai lavorato riduce il tutto alla fissazione di accettare immediatamente qualsiasi occasione di lavoro in attesa di eventuali possibilità migliori, senza capire che mentre stai lavorando non hai tempo e libertà di movimento per cercarti un altro lavoro, e nemmeno intuisce che nel settore i grossi nomi si conoscono tutti, per cui se il tuo concorrente ti telefona informalmente per chiederti "come mai il tuo dipendente ha mandato a me il suo curriculum?" significa che il dipendente si è appena fatto terra bruciata sia qui che lì.

Il parroco continua a fare la predica sull'essere generosi, sul fare "un piccolo sacrificio" per donare qualcosa all'ennesima colletta parrocchiale, continua pomposamente a raccomandare di annunciare Cristo anche sul posto di lavoro (è già tanto che il nostro amico, lavorando, riuscisse ad allontanarsi senza conseguenze da discorsi osceni e blasfemi), di partecipare alla Messa feriale mattutina e invitarvi anche i colleghi (chiederebbero con sprezzante perfidia se è satanica), di pregare ogni giorno magari anche durante le pause del lavoro (il parroco deficiente ancora non ha capito che dal suono della sveglia al mattino fino alle 20:30 è difficile conquistarsi una "pausa" perfino per andare al bagno). Nonostante i tanti incontri della CdO, il giovane parroco non sa cosa significa lavorare nel settore privato in tempo di crisi economica e quindi invita alla gita parrocchiale tutti, magari "prendendo un giorno di ferie" (facile per una delle segretarie, impresa ardua per uno dei tecnici), magari mettendo nella bacheca aziendale l'invito a partecipare (così, tanto per scatenare il solito inutile vespaio di fesserie sulle crociate, su Galileo e sul matrimonio dei preti)...

Il parroco non ha idea delle circostanze che rendono consigliabile rifiutare un posto di lavoro: chiederebbe ingenuamente al malcapitato: ma non potevi far notare che...? non potevi chiamare un tuo avvocato...? non potevi esigere che sul contratto...? (se ci fate caso, è lo stesso stile di quando i capi rimproverano: "non potevi premunirti? non potevi prendere il treno prima?..."). Il parroco non sa cosa sia un'azienda costitutivamente (o virtualmente) già fallita, non sa che il personale "fatturante" è generalmente l'ultima ruota del carro, non riesce a distinguere la differenza fra chi passa le giornate lavorative impegnato in attività secondarie e chi invece produce materialmente profitti, non sa che grazie alla crisi in azienda chi produce il cento, il sessanta, il trenta, hanno sostanzialmente lo stesso stipendio.

venerdì 5 febbraio 2016

Aziende virtualmente fallite

C'è un tabù innominabile perfino negli incontri della Compagnia delle Opere: è il fatto che gran parte delle aziende italiane sono virtualmente già fallite. Lo si riscontra nella loro difficoltà a saldare il dovuto a fornitori e dipendenti.

Mi viene in mente ad esempio il ridicolo «noi facciamo a novanta giorni», cioè il pagare un fornitore più di tre mesi dopo che il lavoro è stato completato, consegnato e fatturato (in realtà ci sono alcune grosse aziende italiane che pagano a "180 giorni", cioè sei mesi dopo, cioè verso la fine del settimo mese). A suo tempo avevo già commentato il caso di quell'azienda che bloccò il pagamento degli stipendi di agosto a centinaia di dipendenti (immaginatevi di ritrovarvi senza soldi proprio quando arriva il bombardone delle scadenze di settembre), con la scusa che il cliente aveva ritardato il pagamento. Un amico mi dice di aver ricevuto lo stipendio di novembre solo dopo Natale, e che deve prestare qualche altro centinaio di euro al suo ex datore di lavoro altrimenti quest'ultimo non potrà concludere un'attività che gli permetterà di fatturare (si spera) a marzo... e di pagargli le migliaia di euro di arretrati.

Se un'azienda non è in grado di pagare le spese correnti, sul piano economico è fallita. Deve chiudere i battenti. Non si può fare imprenditoria senza soldi (e con un cappio al collo proveniente dalla banca). Non ha senso restare in attività sperando che i clienti siano puntuali nei pagamenti e i fornitori accettino ritardi. Non ha senso mantenerla aperta se ogni giorno occorre inventare nuovi trucchi per procrastinare i pagamenti. Se l'azienda non ha soldi, non ha il diritto di trasformare dipendenti e fornitori in "prestatori" involontari (e se l'azienda deve freneticamente correre a mostrare le fatture in banca, significa che di fatto è già fallita).

Ed invece è esattamente quel che è successo - in Italia come altrove. Abbiamo un tessuto di piccole e medie imprese tutte sull'orlo del collasso. Tutte che faticano ad arrivare a fine mese - proprio come i loro dipendenti, trattati spesso come il cavallo dell'orwelliana Fattoria degli animali: dopo averlo torchiato tutta la vita, lo vendono al macello per cavarne qualche ultimo dollaro. Come un caro amico assunto per un mese: si accorgono che è metodico, onesto, puntuale, e gli rinnovano il contratto, prima di un altro mese, poi di un altro, e poi... gli propongono di prolungare a part-time (col sottinteso che dovrà produrre lo stesso di prima in metà delle ore) perché non hanno soldi. E che non abbiano soldi si nota dal ritardo nel pagamento del primo mese, e dal non ancora avvenuto pagamento degli altri due. È insomma un'altra delle aziende che sul sito web sembrano floride e in realtà fanno fatica a stare in piedi mese per mese. Ed il metodico lavoratore in questione non può tirarsi indietro perché altrimenti non vedrà più gli arretrati. Praticamente uno schiavo.

Quando pagai l'operaio che mi aveva fatto dei lavori in casa durati alcuni giorni, fu così contento che pareva Zaccheo mentre scende dal sicomoro. Non avevo fatto nulla di particolare: senza fiatare gli diedi quanto avevamo inizialmente concordato e pagai un minuto dopo il termine dei lavori. Era contento perché non ricordava più l'ultima volta che era avvenuto altrettanto.

Avvenne non solo per la dignità del suo lavoro: semplicemente gli avevo commissionato la cosa quando avevo la certezza di poter pagare. Nelle aziende, invece, già stritolate da sei mafie, vige la regola opposta: "intanto accettiamo la commessa, poi si vedrà". Il «poi si vedrà» è composto anzitutto da una selva di trucchi per ritardare e diminuire i pagamenti (cioè ai limiti del furto), per torchiare i dipendenti a lavorare di più senza che cresca proporzionalmente il loro compenso (cioè frodare la mercede agli operai), e limitarsi a consegnare il minimo indispensabile per salvare le apparenze (cioè nuovamente ai limiti del furto).

domenica 3 gennaio 2016

Finita (era ora) la bufera natalizia

Ringraziando il buon Dio, è finalmente passato anche questo Natale-Capodanno. È, ogni anno, il periodo in cui mi prende un incoercibile desiderio di darmi alla vita eremitica. Raffiche di auguri, tempeste di frasi di circostanza, uragani di gesti natalizi, per una buona metà nei confronti di gente che sta pensando: "ne farei volentieri a meno", ma non ne può fare a meno a causa di una pressione superiore.

Alcuni momenti topici.

Una dice con entusiasmo: "andiamo a vedere le luminarie". Erano una serie di lampadine inchiodate a delle strutture generalmente in legno. Le lampadine erano accese perché vi circolava energia elettrica.

Un altro dice con gioia: "andiamo a vedere i presepi". Era la mostra del fai da te, in cui la scena della Sacra Famiglia era quella a cui era stata dedicata minor attenzione. Dettagliatissimi balconi, scale, casette e mini-vani aggiuntivi, tutto in rigoroso abuso edilizio e massimo spregio delle più elementari norme di sicurezza, con una dovizia di particolari da far gioire piuttosto uno psichiatra.

Un'altra dice: "andiamo a mangiare una pizza". Locale strapieno, con gente accampata a mangiare anche sotto i tavoli o appesa ai lampadari. Ci siamo arrivati dopo una colonna di traffico da film di fantascienza. Il parcheggiatore mi ha inseguito fino al di là della strada per esigere la mazzetta esentasse (che non gli ho dato perché non ho usufruito del parcheggio della pizzeria).

Dal commercialista uno dei soci, con una stretta in gola, mi dice: "ma lì ci sono i panettoni, prendine uno anche tu". Sottinteso: rimasugli delle regalìe per i clienti più ragguardevoli. Rispondo distrattamente, per fargli capire che non avrei toccato il suo tesssòòòro. Ma più tardi una delle segretarie interviene sul posto e con voce tutta natalizia mi dice di prenderne uno "di quelli con la bottiglia", più pregiato. Non me lo faccio ripetere due volte e porto trionfante il trofeo a casa, lasciandomi notare dal vicinato più curioso di un reparto spionistico sovietico.

Sono stato a Messa nei soliti posti dove sono poco conosciuto, fuggendo via subito dopo la fine della liturgia in modo da non dover dare e ricevere altri stupidissimi auguri dentro e fuori dalla chiesa. Ma c'è gente che è riuscita a farmeli lo stesso, approfittando del fatto che - caso raro! - avevo risposto al telefono pur notando un numero chiamante sconosciuto.

Avrò offeso mortalmente un po' di parenti e conoscenti, dicendo che gli impegni che avevo in queste festività non mi permettevano un pranzo o una cena o un'uscita con loro. Temevo infatti le solite abbuffate pantagrueliche, esagerate perfino per una buona forchetta come me.

Nella Religione Civile Obbligatoria attualmente in vigore, si esige che in occasioni come compleanni e onomastici sia pressoché obbligatorio "fare gli auguri".

Si tratta di un'usanza pagana derivata dall'idea molto approssimativa che la vita cominci al momento della nascita anziché al momento del concepimento. Festeggiare un compleanno è un modo per allontanare la paura di morire: vedete? Ho compiuto (cioè concluso) un altro anno di vita (secondo il riferimento fissato all'Anagrafe comunale) e sono ancora vivo.

L'onomastico è invece un'usanza cristiana. Dal momento in cui i genitori battezzavano il proprio figlio col nome di un santo che era loro caro, alla solennità liturgica del santo avevano ben da festeggiare: nostro figlio che porta il tuo nome è ancora affidato alle preghiere tue e di tutti gli altri santi che sono con te in Paradiso, io che porto il tuo nome ti chiedo intercessione nel giorno della tua festa liturgica.

Non ha molto senso festeggiare i compleanni, se non per i significati amministrativi che hanno nella società (a tale età puoi conseguire la patente di guida, a talaltra età puoi andare in pensione).

Non ha molto senso festeggiare un onomastico, tranne nel caso di sincera devozione al santo e partecipazione alla liturgia in suo onore (il che è decisamente raro perfino tra i cosiddetti cattolici: quanti sono quelli che per festeggiare il proprio onomastico vanno alla Messa in onore del santo di cui portano il nome? una sparuta minoranza).

Ma la Religione Civile Obbligatoria comanda ugualmente di festeggiare e scambiare auguri ed auguroni. La Religione Civile Obbligatoria ha esattamente i difetti che contesta al cattolicesimo: dogmi inspiegabili, ritualismi inutili, pesi imposti al buonsenso.