lunedì 29 settembre 2014

Ancora sulla dignità del lavoro

Sicuramente esiste una legione di demoni specializzati nel trasformare il lavoro da “continuazione dell'opera creatrice di Dio” a “presto-presto-presto, dobbiamo fatturare”.

Un amico compra dalla Cina due motori elettrici di particolari caratteristiche, che nessuno qui in Europa si sogna di fabbricare (neppure i tedeschi, ultimo baluardo dell'industria europea). Dopo un po' di giorni di utilizzo si guastano (girano a vuoto). Smontandone uno per capire cosa si è guastato, fa una piccola scoperta: nel planetario c'erano due ingranaggi di plastica. Proprio i pezzi sottoposti a maggior sforzo erano di plastica anziché di metallo, e dopo poco tempo di normale utilizzo dei motori si sono sbriciolati.

Fabbricarli con tutti gli ingranaggi metallici avrebbe fatto lievitare il prezzo del motore di meno di una frazione dell'un per cento. Non aveva senso risparmiare proprio sui componenti più importanti. “Cineserie”, mi si dirà. Ahinoi, è assolutamente la stessa cosa che avviene in tutto il mondo, a cominciare dall'Italia stessa, perché si tratta di una mentalità, non di una leggerezza esclusiva dei cinesi.

Il mondo del lavoro - anche qui in Italia - sembra guidato da due urgentissime necessità: quella di “far presto” (a scapito del “far bene”) e quella di “fatturare presto” (a scapito del “lavorare normalmente”). Come in quella fabbrichetta cinese (che pure produceva motori elettrici di ottima fattura) l'importante era “far presto”. Non ci sono più gli ingranaggi metallici di quel tipo? Ce li facciamo stampare di plastica. Ehi, gente, qui bisogna “far presto” a consegnare perché bisogna assolutamente “fatturare”, perché altrimenti ce ne andiamo tutti a casa!

Non si tratta di “cineserie”: è una mentalità. Anzi: è la mentalità. Non più il lavoro che prosegue “l'opera creatrice di Dio” (e che pertanto esige anzitutto di esser fatto bene), ma solo uno scambio tra qualcosa di fastidioso (il dover lavorare) e qualcosa percepito come assolutamente indispensabile (estrarre soldi dai clienti). “Presto, presto! dobbiamo consegnare e fatturare! Presto!” Ma la luce del bagagliaio non funziona... “Consegnate! il cliente, se proprio si lamentasse dopo essersene accorto, ricorrerà al concessionario”. Ma l'antenna va in corto circuito: se solo si impugna il telefonino, il segnale cade! “Negate il problema! Consegnare! Fatturare! poi dopo distribuiremo -solo a chi protesta forte- una custodia isolante per aggirare la cosa!” Ma non si possono lasciare a terra i viaggiatori... “Venti corse in una giornata possono bastare, tanto nessuno di loro le conterà”.[1]

Così, anziché essere almeno pallida volontà di proseguire l'opera creatrice di Dio, la qualità di un prodotto o un servizio è soltanto una soglia di compromesso tra il costo del rispondere alle lamentele, e il prestigio prestabilito da mantenere. Ciò che i cinesi hanno fatto in quei motori elettrici, si fa quotidianamente in tutto il mondo - Italia compresa - in quasi qualsiasi attività lavorativa che produca un po' più che aria fritta.

È una mentalità che si apprende già a scuola, scoprendo che è “sufficiente” un componimento che inizia e finisce per frasi fatte e con un numero di righe ragionevolmente vicino al “minimo sindacale”. È una cosa che si apprende perfino in parrocchia, davanti a quel cartello in cui si annuncia che per le confessioni il prete è disponibile dalle 15 alle 16 del giovedì pomeriggio: il minimo sindacale per non essere sgridato dal vescovo, il minimo indispensabile da “consegnare” pur di poter “fatturare”.[2]

“Non importa come: fatelo funzionare! Entro fine mese dobbiamo assolutamente fatturare!” Ho conosciuto personalmente chi ha preparato un prodotto da sfornare sul mercato e poi, nell'ultimo tratto di strada, lo ha castrato, straziato, frankensteinizzato, attaccato con lo sputo, snaturato in ogni modo pur di “consegnare” e “fatturare”. Anche quando c'è un progetto, anche quando c'è un ideale, l'ossessione del presto-presto-presto estrae sempre il suo sanguinosissimo tributo.

Ho detto che si tratta di qualcosa di diabolico, perché ho visto gli sguardi assatanati di chi lavora giorno per giorno proferendo e pensando continuamente quelle litanie. Il lavoro diventa a poco a poco una schiavitù da quel demonio invisibile ma concreto: presto-presto-consegnare-fatturare. E come descritto magistralmente in Arcipelago GULag, uno degli effetti collaterali è il dover trasformare il lavoro in apparenza di lavoro. Il dover cercare, nelle pieghe dei regolamenti, ciò che può far risparmiare tempo (a costo di produrre qualcosa che è buono solo per esser gettato via). Il dover trovare un capro espiatorio quando qualcosa va male. Il dover corrompere il fornitore e l'appaltante per dare l'impressione di essere riusciti a concludere regolarmente.

Come col fenomeno della tuchta: impossibile raccogliere tanta legna, ma si mette per iscritto che è stata consegnata; impossibile fermare il trasporto di legna per denunciare l'ammanco, perché le autorità scoprirebbero che il treno viaggia con qualche vagone in meno (non potevano non partire! non importava dover lasciare fermi i vagoni guasti: “qua bisogna consegnare!”). La falegnameria consegna i semilavorati dichiarando di aver lavorato tutto: non aveva tempo di farlo, non aveva tutte le lame per tagliare tanta legna, non c'erano abbastanza operai: vorrai mica far scattare controlli denunciando l'ammanco? Il mobilificio accetta assi e pannelli senza lamentarsi: ha lo stesso problema, gli basta corrompere gli agenti delle verifiche, costa meno del fermare la produzione solo per denunciare l'ammanco. Infine, nei negozi di mobili, qualcuno tirerà un sospiro di sollievo per non dover essere costretto a occupare spazio con mobili che, stante la crisi, non si riescono a vendere. Risultato: mentre sulla Pravda si può scrivere che i negozi sono pieni di merce e il piano quinquennale ha fatto aumentare del venti per cento la produzione, in realtà ci sono lunghe file anche per comprare solo un pezzo di pane. Grazie alla tuchta, cioè la “mancia” che ogni passaggio screma per proseguire la catena.

Quanto descritto in Arcipelago GULag è storia anche dei nostri giorni. Il potente motore elettrico con due delicati ingranaggi interni fatti in plastica rappresenta non tanto la “cineseria”, non tanto l'incompetenza, non tanto la faciloneria, ma il rapporto che si ha con il lavoro, l'ossessione del consegnare presto-presto-presto i lavori. Poco importa che per fretta nel basamento abbiano gettato di tutto per far volume col cemento, poco importa di non aver preso precauzioni contro umidità e vibrazioni proprio nel trasformatore dell'apparecchio, poco importa di aver allungato il vino col metanolo per completare subito le consegne, poco importa di aver depositato uno strato ridicolo di pietrisco prima di pavimentare: l'importante è consegnare, perché qui bisogna fatturare, capito? qui bisogna fatturare! È stato in nome della fatturazione che ci si è accorti che l'asbesto è pericolosissimo solo dopo che ne è scaduto il brevetto, è in nome del risparmio che sono state estese linee ferroviarie sulle coste e altri terreni demaniali piuttosto che nei centri città, è in nome del contentare rapidamente il cliente che si è edificata una palazzina sul letto di un fiume (con diverse vittime alla prima pioggia autunnale).

La dignità del lavoro è un concetto esclusivo della cristianità. L'affievolirsi della fede ha degradato il mondo del lavoro alla mentalità del paganesimo (cioè quella che considerava il lavoro “degradante” e la malattia “sfavore degli dei”). Anche nel mondo cosiddetto “cristianizzato”, dove fino a non troppi anni fa era ancora comunissimo vedere un professionista fiero del suo lavoro indipendentemente dal credo religioso.[3]

L'accanimento con cui si grida presto-presto-presto ha registrato in tempi recenti nuove grandi vittorie di quella legione: l'imprenditoria basata sul cappio delle banche e il burocraticismo[4] dello Stato che anziché promuovere il lavoro lo torchia.[5]

È un segreto di Pulcinella il fatto che la stragrandissima maggioranza delle aziende italiane deve servire un debito con la banca. Anzitutto perché avviare un'attività commerciale richiede capitali considerevoli che, chiesti in prestito, si spera di recuperare e ripagare.[6] In secondo luogo perché anche quando non ci sia crisi, è già faticoso dover pagare gli interessi sul prestito. Molte aziende italiane sono virtualmente già fallite da tempo, perché a fronte di un mai estinto (e mai diminuito) debito con la banca, fanno già una grossa fatica a pagare gli interessi. Basta veder calare gli ordinativi di pochi punti percentuali, ed è il panico (o il fallimento).

L'ossessione del presto-presto-presto-fatturare nasce nei nostri giorni anche e soprattutto per saziare l'insaziabile debito. Per esempio, con un meccanismo perverso, la banca accetta di anticipare soldi sulla base delle fatture (cioè si finisce per pagare interessi reali a fronte di un pagamento virtuale, cioè una fattura ancora non riscossa). L'importante è fatturare! Presto-presto-presto! E così, all'improvviso, quando un'azienda si trova in difficoltà, è costretta a manovre clamorose: come l'anno scorso, quando settecento dipendenti di una grossa azienda non ricevettero lo stipendio ma la promessa di un “breve ritardo” di pochi mesi...[7] Oppure quando si riunisce d'urgenza il consiglio d'amministrazione per capire se è più economico guerreggiare coi sindacati per tagliare un terzo del personale, oppure se dichiarare subito fallimento sperando che il polverone alzato attiri anche qualche soldino di aiuti (che sarà ossigeno per permettere a qualche dirigente di svignarsela prima che la nave affondi).

La grande Flannery O'Connor, quando le chiesero perché fosse una scrittrice, rispose qualcosa come: perché mi riesce bene.

La dignità del lavoro, nel sistema moderno, non c'entra più. Bisogna per forza “sporcarsi le mani”. Lo fanno tutti. Presto-presto-presto: non si possono fare “bene” le cose, basta che sembrino accettabili. Ed anche qui in Italia c'è l'inconfessato desiderio di voler trasformare il “lavoro” in una “rendita”: specialmente di questi tempi, in cui il lavoro è retribuito ai limiti della sopravvivenza, in cui il lavoro specializzato è disprezzato (guardate quanto guadagna un ingegnere o un poliziotto in servizio su strada rispetto a quanto si guadagna nell'improduttivo mondo dello spettacolo). Per questo stiamo passivamente accettando la “cinesizzazione” del lavoro in Italia.


1) Sposto qui in nota il comico esempio della “pizza al salame” in cui mi sono imbattuto non troppo tempo fa. Di persona. Una pizza margherita con una fetta di salame al centro: costo, un euro in più. Quella fetta costava un euro: massimizzare gli incassi sul salame, a costo di esagerare. “Pizza al salame”.

2) In qualità di fedele cattolico, sono convinto che il sacerdote dovrebbe essere disponibile alle confessioni in ogni momento, coi soli limiti del buonsenso. Il prete che ti rimanda sempre all'orario per le confessioni è generalmente uno che non ha capito cosa significa avere un lavoro, una famiglia, gli studi, la salute... La burocratizzazione del ministero sacerdotale è una delle più funeste invenzioni del demonio.

3) Come quegli ingegneri lombardi, a guerra ormai persa, che per acquisita propensione al lavoro “a regola d'arte” - e solo per quella propensione - insistevano a collaudare adeguatamente per decine di ore di funzionamento al banco di prova i motori di quegli aerei che per buona parte sarebbero stati abbattuti dopo una o due missioni, dopo appena una o due ore di volo.

4) Si veda ad esempio l'articolo: Volevo solo vendere la grattachecca.

5) Quanto alla persecuzione amministrativa, si veda ad esempio l'articolo: La vera impresa è lavorare.

6) Un imprenditore che chiede 100 alla banca dovrà ripagarne 118, 140, 180 ecc., a seconda del tempo che ci mette a restituire. Quel di più da restituire andrà estratto dalle tasche dei clienti, riducendo la qualità dei prodotti e dei servizi, limando i propri guadagni. Nel gergo bancario, debito consolidato è il mellifluo nome con cui si indica il caso di un'azienda che non riesce a restituire il prestito ma riesce almeno a pagare gli interessi anno per anno. Benché al Meeting di Rimini si parli del “fare impresa” come una somma di dedizione, passione e creatività, l'ordinaria vita dell'imprenditore è fatta come minimo di compromessi, sotterfugi, artifici, lotte perenni contro il tempo, sorpresacce pressoché quotidiane, multe kafkiane per infrazioni di leggi che nessuno conosceva, promesse che diventano impossibili da mantenere, fiumi di “scadenze” (spesso improvvise, spesso già scadute), e soprattutto fidi, disponibilità, anticipi, “rosso”, “rientrare”, ecc.: il sistema bancario screma guadagni ad ogni livello, guadagni su cui è tabù non solo l'indagare ma anche il ragionare.

7) Chi non capisse il concetto dell'operaio che ha diritto alla sua mercede può presentarsi al supermercato, fare la spesa e non pagare, annunciando a sorpresa alla cassiera che lo farà “con un breve ritardo” di pochi mesi. Idem per l'affitto di casa, la benzina, le tasse...

sabato 20 settembre 2014

Faremo soldi a palate

“Faremo soldi a palate!” disse con voce entusiasta strozzata in gola l'amministratore delegato. Durante la riunioncina informale al bar avevano avuto un'ideuzza geniale: un Facebook per gatti e cani (oppure, non ricordo bene, un Twitter per gli appassionati di cucina, o un Whatsapp per sportivi, o qualcosa del genere). “Dobbiamo solo trovare un programmatore capace di scrivere un clone di Facebook in una settimana”, disse sorridente un commerciale per smorzare i facili entusiasmi, ma ricevette occhiatacce come un menagramo.

La tag-line dell'amico che anni fa ha ispirato e configurato questo blog è “faremo soldi a palate”. Descrive l'illusione che il successo nasca non da un misto di enorme impegno ed enorme fortuna, ma da qualche idea nata per caso, unendo le buzzword più in voga del momento (tablet, facebook, stampanti 3D, selfie, internet, gatti, cellulari...) e illudendosi di realizzare in poche settimane un successone che permetterà di campare di rendita per i secoli a venire.

È una malattia vecchia come il mondo. In ogni momento della nostra vita aleggia sempre la proposta del Gatto e della Volpe: fare soldi a palate, subito e senza sforzo. Il gioco del lotto come tassa sull'ignoranza: “hai mai sognato di fare altro?” L'idea di diventare ricchi sfondati lanciandosi come cantanti. Il teorema dei film hollywoodiani (azione o romantici, tutti uguali): vince il predestinato grazie alle sue decisioni improvvise, banali, emotive.

Da anni le aziende italiane vengono strangolate dalle tasse (un'allarmante quantità di grandi marchi Made in Italy è ormai di proprietà estera) e c'è ancora gente che crede che la ricchezza sia a portata di mano, in attesa di una nostra eroica decisione improvvisa ed emotiva, presa senza pensare, senza ragionare, senza saper aspettare. Sono convinti che il successo nasca dal voler decidere di avere successo, come quei delinquenti di mezza tacca che in meno di cinque secondi sognano, pianificano, decidono e attuano una rapina. Sono convinti che l'arte nasca dall'improvvisazione selvaggia, come quegli imbecilli armati di spray che vanno imbrattando muri senza neppure avere le idee chiare su cosa scrivere. In tempi di crisi, si diffonde la mentalità bolscevica, quella che per realizzare le voglie del momento dei pezzi da novanta non esitò a sequestrare fino all'ultimo chicco anche il grano più prezioso e intoccabile, quello destinato alla semina. E un intero popolo morì di fame.

“Faremo soldi a palate”: più impulsive sono le decisioni, e più gli autori del disastro si considerano coraggiosi e si aspettano il successo: perfino nel mondo del lavoro. L'ideuzza improvvisata durante la pausa caffè diventa legge immodificabile un minuto dopo, costi quel che costi.