lunedì 26 dicembre 2011

Nuove strategie di pastorale vocazionale

L'ottavo e il nono episodio della serie anime Yomigaeru Sora descrivono per analogia, ma con sorprendente precisione, la dinamica della vocazione. Un giovane in fuga dalla famiglia incontra due militari in vacanza. In una situazione di emergenza, i due lo coinvolgeranno - loro malgrado - nel mettere in salvo delle vite. Il giovane ribelle, vedendoli personalmente in azione, vedendoli possedere il significato delle cose, resterà a poco a poco affascinato da quel mondo che ha inaspettatamente incontrato, sorprendendo infine suo padre col manifestare l'intenzione di entrare nelle forze militari per vivere allo stesso modo di quei due.

Alle origini di una vocazione c'è sempre un irresistibile fascino per una vita investita per qualcosa di talmente grande da far sembrare trascurabili tutte le fatiche affrontate. Solo che è generalmente impossibile arrivarci per ragionamenti, depliant o discorsi: occorre vedere con i propri occhi, liberi da pregiudizi, perché vale la pena fare quel tipo di vita. Ti si stampano in testa anche quei dettagli apparentemente secondari, come quella malcelata soddisfazione che si legge nel volto di uno dei due militari per aver correttamente compiuto la propria missione. Tutto questo è diretta conseguenza del fatto che la fede si trasmette “per contagio”.

In realtà tutta la serie Yomigaeru Sora è una storia di una vocazione: il protagonista, che aspirava a diventare pilota di jet, è invece assegnato al reparto elicotteri della protezione civile, cosa che lui interpreta come una vergognosa degradazione. Alla quale seguono comunque fallimenti, fatiche e incomprensioni. Che però gli apriranno gli occhi: nello scoprire a poco a poco il senso di ciò che fa, si accorge anche di desiderarlo, non perché si stia faticosamente rassegnando ad accettare quella vita ma perché ne scopre il significato, infinitamente più vasto delle sue previsioni. Perché ha davanti un padre, un adulto da seguire, una guida.

Nell'animazione giapponese, anche quella più commerciale, sembra esserci un riferimento piccolo ma costante ad un cristianesimo pienamente vissuto. Come se per vendere occorra risvegliare una nostalgia del cattolicesimo che hanno estirpato. Per cattivarsi un pubblico adulto, mentre in Italia si gioca su romanticismi e volgarità, in Giappone si racconta invece di coraggio e passione. Mentre i protagonisti delle fiction italiane si interrogano pensosi e distratti sulla confusione che hanno in cuore, quelli degli anime di livello medio-alto trasmettono - perfino loro malgrado - una passione, una certezza, dunque una speranza. Nel nostro paese, per vendere, occorre produrre storiette tra il volgare e il banalmente sentimentaleggiante; in Giappone, per vendere, bisogna parlare di passione per la realtà, bisogna far eco del cristianesimo, bisogna mostrare in modo convincente come nasce una vocazione.

martedì 20 dicembre 2011

domenica 4 dicembre 2011

Il pranzo di Babette

Ci vuole un protestante per dissacrare e umiliare senza appello anche il protestantesimo più candido. Le opere di carità non bastano a riempire la vita, l'osservanza rigorosa non basta a rendere felici, l'attenta partecipazione alle celebrazioni non sazia l'anima, persino quando tutte queste cose riescono ottimamente: ci volevano dei protestanti sinceri per accorgersene e per documentarlo.

Il protestante o finge di dimenticare o vive di rimorsi: ecco il risultato dell'aver cancellato il sacramento della confessione. Mettono una feroce tristezza i colori cimiteriali di quegli abiti e quei sorrisi prefabbricati del Decano. Perfino il cibo, sebbene servito con tutti quei riguardi, è un puro nutrirsi - fino a quando il pranzo di Babette dimostrerà qualcosa di nuovo e di imprevisto.

È in fondo in fondo il cattolicesimo il vero protagonista del film. Protagonista nascosto e citato solo per essere deriso: “ah, papista, certo, sì, sono cattolico”. Ma che emerge prepotentemente in alcuni momenti della vita delle due sorelle. Quando il peccatore incallito Achille entra nella loro storia dimostrando, paradossalmente con la propria debolezza, che quella vita in ottemperanza alla Bibbia censura qualcosa di grande. Quando è la Babette a cucinare i pasti per i poveri, dimostrando che la prima vittima del regolamentismo protestante è la passione per il reale. Quando è la Babette stessa a cucinare il pranzo che solo il Generale - uomo che ha visto il mondo, non soltanto un villaggio, uomo che ha visto arte, bellezza, passione, non soltanto le celebrazioni della Parola - solo il Generale saprà ammettere di apprezzare quel notevole atto di carità che solo al termine - e quasi con ritrosia - verrà compreso anche da altri (il legalismo protestante è fondamentalmente incapace di atti di carità più grandi dello stretto necessario).

Nonostante i loro vistosi limiti Babette, il Generale, Papin, iniettano nuova vita (talvolta involontariamente) a quel funereo mortorio protestante senza fare nulla di riconoscibilmente “papista”. Sono semplicemente estranei al moralismo puritano, hanno soltanto quel po' di passione per la realtà, tirano conclusioni senza doverle incastrare in qualche versetto biblico. I protestanti han saputo darsi delle regole durissime (come ad esempio nella riunione precedente al pranzo di Babette) e riescono perfino a seguirle fino in fondo, ottenendo però continuamente la dimostrazione che un cristianesimo fatto di regole conduce solo alla tristezza. Una carità fatta di regole conduce a dissapori e liti. Un cristianesimo ridotto a perfetto elenco di giustissime norme rende la vita grigia, cupa, impoverita.

Il cattolicesimo è qualcosa di vivo. Il cattolico vero, anche il più scalcagnato, trasmette (persino involontariamente) ciò che era vivo e che non era sopravvissuto al legalismo protestante.

Quando il cattolicesimo comprime e riduce la passione per la realtà allora è già irreversibilmente protestantizzato. Quando qualcuno accusa la Chiesa “papista” di essere una religione di dolore, di normative, di autoflagellazione, allora sta in realtà affermando di aver conosciuto una Chiesa protestante e legalista. Quando i giovani spariscono dalla parrocchia per banalissimi motivi, stanno in realtà scappando da un asfissiante puritanesimo travestito approssimativamente da “papista”.

Vasti settori della Chiesa cattolica soffrono oggi di quel cancro. Autoreferenziali, protestantizzati, asfissianti, burocratizzati, castranti, persino quando apparentemente predicano contro quelle stesse cose. I loro “seguaci”, come nel villaggio delle due sorelle, vi aderiscono più per volontà che per convinzione, più per forza d'inerzia che per attrazione, più per doverismo che per necessità. Le parrocchie dove “tutto funziona” sono come quel villaggio: un ambiente pulito ma grigio, preciso ma funereo, perfetto ma asfissiante, dove domina quel senso di vuoto, quel fardello sempre più faticoso da sopportare.

Papa Giovanni Paolo I disse che il dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è l'aver tentato di sostituire lo stupore dell'evento di Cristo con delle regole. La protestantizzazione massiva, attuata per di più dall'interno della Chiesa stessa, è stata calata dall'alto su tanti fedeli, riducendo l'ambiente delle parrocchie al villaggetto degli ottemperanti alle regole, banalizzando la passione per la realtà a fastidioso uzzolo di chi ha tempo da perdere, cassando via - o costringendo in una “riserva indiana” - chiunque abbia la sventura di avere un “carisma” sprovvisto di potenti appoggi curiali.

Bisognerebbe far vedere al parroco questo film e spiegargli ogni scena, ogni parola, ogni espressione di ogni volto. Fargli capire che perfino nella più onesta intenzione di “donare al Signore” la propria vita, si rischia di fare la fine delle due sorelle. Fargli notare che il “cattolico papista”, nonostante i propri limiti, è ordinariamente capace di gratitudine senza sforzo (e -aggiungo con un ghigno- senza dover scomodare la Bibbia). Farlo interrogare sul fatto che quell'atteggiamento sottilmente castrante produce un paradiso di plastica, un villaggetto dove tutto va bene e tutti cantano insieme alla celebrazione settimanale ma senza riuscire ad esprimere altro che una grigia ombra. Fargli notare che la carità invisibile di Babette, impossibile da misurare, impossibile da descrivere nei documenti pastorali, è frutto di una passione per la realtà piuttosto che di uno sforzo di volontà, è frutto cioè di un moto del cuore piuttosto che di un'adesione a delle regole.

L'ossessiva somministrazione di spremute di Bibbia non giova ai fedeli ma li appiattisce e li annoia. I fedeli hanno bisogno del Sacramento, non del Libro. I fedeli vanno educati alla realtà totale più che al controllo dell'osservanza delle regole. Il parroco dovrebbe capire che il contrario dell'immoralità non è il moralismo, il contrario dell'impurità non è il puritanesimo, il contrario della tristezza non è l'allegria (tanto meno quella prefabbricata) ma la letizia (che non si può programmare come se le persone fossero computer), il contrario delle chiacchiere inutili non è un sermone costellato di citazioni bibliche. Altrimenti prostitute e peccatori (come quei tre “criptocattolici” del film) passeranno avanti nel regno dei cieli.