mercoledì 25 dicembre 2013

Finalmente è finita

Come ogni anno, il giorno di Natale è quello in cui faccio più penitenze. Quel diluvio inarrestabile di inutilissimi “auguri”, quell'asfissiante ostentazione di falsi sorrisi, quell'inevitabile grande abbuffata, quelle fastidiosissime canzoncine gingo bello e quello straziare i canti liturgici tradizionali, quell'obbligo di sorbirsi l'insulso parentame e gli elettrizzatissimi bambini, e poi quelle ridicole e interminabili celebrazioni eucaristiche, cioè l'occasione suprema per le grandi nullità parrocchiali di salire sul palcoscenico a celebrare sé stesse. Il grande momento della liberazione è al termine del pranzo di Natale, quando finalmente ci si può alzare e andar via, provando nell'attraversare il corridoio una sincera e irrefrenabile invidia per quei monaci che fanno voto di silenzio.

martedì 1 ottobre 2013

Un investimento perduto a causa di un incidente

Avvenne qualche tempo fa. Una coppia di sposi perde il suo unico figlio. Un dolore grandissimo, inimmaginabile per chi non lo ha vissuto.

Ma una volta lontani dal condividere il loro dolore, riemergono nel cuore certe strane domande. Un solo figlio. Figlio unico. Per lui sempre il meglio: dal più blasonato pannolino al miglior giocattolo di marca: mica stracci, mica giocattoli cinesi (tossici!), mica dentifrici non raccomandati “dall'associazione medici dentisti”. La tata certificata non meno che culle e passeggino, le frequenti visite mediche specialistiche (quelle normali sono per i plebei), merendine e bibite a basso contenuto di zuccheri, palestre importanti per uno sport intelligente, feste di compleanno con animazione professionale, corso di pianoforte e di lingua inglese, mica a giocare a palla, mica con la coperta del supereroe che andava di moda fino all'anno scorso, mica lo zainetto quello che stanca le spalle, e poi mille rimbrotti alla maestra perché non lo affaticasse, lite furiosa con la vicina di casa che ha usato il trapano proprio durante le ore di studio del prezioso pargoletto... Strana domanda: perché è capitato proprio a noi?

Sì, l'incidente. Banale, assurdo, inspiegabile: gli aggettivi per definire un incidente sono sempre gli stessi, perché tutti sono profondamente convinti che gli incidenti possano capitare solo agli altri.

Un incidente infatti attiva tutto un insieme di procedure non scritte ma uniformemente riconosciute. Costringe a far di tutto per non sembrare più gli stessi. Fingere di cercare ragioni e riuscire a non trovarne mai. Cercare qualcosa contro cui vendicarsi, invocare regole dallo Stato, protezione dalla società, sostegno dai conoscenti, solidarietà dagli sconosciuti. Reclamare, con ogni scusa possibile, soldi, soluzioni, memoria, fama. Fingere di accollarsi responsabilità ma con la pretesa di essere immediatamente e universalmente riconosciuti innocenti. Cercare perennemente qualcuno o qualcosa a cui affibbiare la colpa, accusando di “cinismo” chiunque non solidarizzi a norma di galateo moderno.

Insomma: è il passaggio dall'aver fabbricato un figlio “di successo” al ritrovarsi improvvisamente senza figlio e senza “successo”. Ci si sente come derubati di un enorme investimento ancora in corso, come quando il cane va a leccarsi per un momento l'impasto della torta vanificando due ore di preparazione e consegnando al nulla il calore del forno acceso.

Ecco: ci si sente derubati. Consideravano il proprio figlio come una loro proprietà, un loro progetto, su cui hanno investito tempo e denaro per la messa a punto, impegnandosi a rispettare i più elevati standard del momento... ed un incidente li priva del loro Unico Figlio. Sì, un incidente, proprio ciò che non avevano mai (dico: mai!) previsto nemmeno come remota possibilità.

Inutile parlare a chi non vuole ascoltare. Inutile parlare di speranza a chi ha perso un investimento per un incidente “imprevisto”.

Nei tempi bui (fino a mezzo secolo fa) avevano un figlio unico solo coloro che per problemi fisici non erano riusciti ad averne altri. Un incidente era qualcosa che non riguardava solo “gli altri”. La morte di un figlio, fosse anche il figlio più amato, non riduceva i genitori a due professionisti disperati per essere stati derubati del loro investimento.

martedì 10 settembre 2013

Festa di piazza in paese

Festicciola in piazza, con complessino che strimpella vecchie insulse canzonette e urla nei microfoni. Amplificazione degna di miglior causa, con bassi che rimbombano nello stomaco. Gran folla di persone ad assistere all'autoesibizione retribuita delle star sul palco. Ragazzetti che chiassano per le stradine, tra minacce, grasse risate, battute stupidissime. Gente che esibisce il vestito nuovo, la moto liturgicamente ripulita per l'occasione, sguardi che fuggono senza meta, anziani che ciondolano tra le bancarelle ripetendosi con fervore le stesse piccinerie di tutti i giorni.

Io invece sono a casa: durante e dopo la cena mi tocca sorbire il fracasso accuratamente amplificato. I lorsignori sul palco sono ben rappresentati da quella vignetta con le note musicali obese e ammaccate e le scritte “zum zam bam bum” che martellano le orecchie di Paperino. La distanza e l'amplificazione mi fanno giungere il frastuono già scremato alle basse frequenze, cosa che mi permette di distinguere con maggior chiarezza la spiritualità tribale di quella liturgia.

Fin da piccolo ho percepito l'aria liturgica di tali organizzatissime gazzarre paesane,[1] paragonandola all'attenzione e alla preparazione che meriterebbero invece le celebrazioni dei sacramenti. La tecnologia contenuta negli strumenti di amplificazione permette alle masse di lasciar affondare le loro anime nel rumore, laddove la Chiesa le elevava col silenzio, con l'arte sacra e con quelle distese di canto gregoriano.[2] Da piccolo mi imbarazzava vedere che quello stesso popolo cattolico avvertiva il bisogno di equilibrare la sublimità della liturgia con le celebrazioni tribali in piazza (magari proprio la stessa piazza dove sorge la chiesa in cui poco prima ci si comunicava con devozione).

Era imbarazzante, di domenica, pranzare dagli zii col televisore acceso che vomitava allusioni volgari, ciniche insinuazioni e perfidi luoghi comuni, proprio un'ora dopo aver tutti consegnato al Santissimo Sacramento una quantità di buoni propositi. Un milione di volte ho desiderato insorgere e sgridarli: ma un attimo fa non eravate in ginocchio davanti al Redentore? La comunione con Lui è già da dimenticare? Ma avevo paura di sentirmi dire: ma dai, per così poco? ma dai, non ti sembra di esagerare? ma dai...

Ma avevo ancor più paura che alzassero ulteriormente il volume. Sembravo l'unico che non sentisse il religioso bisogno di fracasso e trivialità, mi pareva di non aver posto nello stomaco per quei “bum bam bum”, quelle sconcezze e banalità seguite da applausi tutti uguali. E quelle rare volte che il parroco ci concesse la sua presenza a pranzo, sembrava sentirsi perfettamente a suo agio con loro e col televisore acceso, e forse proprio per questo era così tremendamente noioso nelle omelie e aveva tanto rispetto per quel gruppo di oche litigiose che ogni santa domenica e festività comandata gli starnazzava nella liturgia le solite trite canzonette anni settanta.

Non so dire come e quando mi fu concessa la grazia di stancarmi definitivamente di quella “spiritualità” mondana, oltre che la grazia di capire che da qualche parte doveva esserci una cristianità meno televisionata e più scossa dal Mistero. Nel frattempo mi sforzai di imparare a lasciar passare da un orecchio all'altro, senza transitare per il cervello, tutto quel frastuono, ardua impresa anche se ne ero stato sempre allergico.

Nell'incontrare il movimento di Comunione e Liberazione, la prima cosa che mi colpì fu proprio la liturgia. Silenzio e ordine, sublimità e chiarezza, partecipazione senza protagonismo. Tutti inginocchiati alla consacrazione (scena mai vista in parrocchia), nessuno che spalancava le braccia e le mani come un cretino al pater noster, nessun protagonismo, nessuna scenografia da Zecchino d'oro, nessun ridicolo cartellone coi caratteri cicciotti, nessun “gesto” imbarazzante, niente: solo una compostezza veramente liturgica, come se tutti fossero lì riconoscendo Cristo presente nel Santissimo Sacramento.

La cattiva interpretazione della presenza di Cristo “in mezzo a noi” è all'origine della trasformazione della liturgia cattolica in un attivistico cerimoniale, dove la “partecipazione” è confusa col darsi da fare, dove quell'in-mezzo-a-noi ha ridotto Cristo ad una sensazione di ottimismo. Ne ho avuto un ampio assaggio quando il celebrante mi sgridò perché stavo in ginocchio, postura che lui aveva interpretato come un “non partecipare”.[3] Inginocchiarsi, infatti, non è un gesto da sagra paesana, non è un gesto da trasmissione televisiva di intrattenimento della domenica pomeriggio. Ci si può inginocchiare compunti davanti al Signore, fisicamente davanti al Signore, non certo nell'assemblea sedicente “cristiana” impegnata a “celebrare”, dove la “sacra sinassi” fa il “banchetto escatologico” in un “clima di festa”... e guai a chi non canta, guai a chi non esibisce un moto di “festa”:[4] non sembrerebbe più un varieté pomeridiano domenicale.


1) Avevo goffamente tentato di partecipare talvolta a quelle celebrazioni, anche obbedendo al loro primo comandamento (quello di sospendere la ragione), ma il dogma del “stasera faremo pazzie” non mi ha mai riempito minimamente il cuore. Forse perché so che dopo ogni “stasera” c'è sempre uno “stanotte” ed uno “stamattina”.

2) Il boom delle canzonette “per la liturgia” nasce mezzo secolo fa come risultato della malsana idea che il popolo debba dare il suo attivo contributo allo spettacolino religioso autogestito. Non più il lasciarsi inondare l'anima, ma il darsi da fare per far sembrare “riuscito” lo spettacolino (cfr. ad esempio quel parroco che ha cambiato arbitrariamente la formula finale in: «la messa è finita: andate in pace dopo il canto»).

3) Il maggior numero di sgridate che ho collezionato dai preti riguarda il canto. Mi ripugna cantare certe emerite scemenze. Detesto aggiungere alla liturgia la mia voce per recitare insipidi minestroni di religiosità pseudocattolica. E dopo la prima e la seconda volta che sono stato beccato in flagrante reato di bocca chiusa, quel prete ha sempre guardato nella mia direzione tutte le volte che ammoniva: “cantiamo tutti insieme, su! tutti insieme”.

4) Dal film Buck Rogers: “Il re Ming ordina a tutti di essere felici. PENA LA MORTE”.

lunedì 2 settembre 2013

Un privilegio, una croce, una grazia

Perché si implementa un “convento” o un “monastero”? Per semplificare la vita a coloro che perseguono un grande ideale.

Tanti cattolici - perfino di vita religiosa o monastica - hanno dimenticato o addirittura sempre ignorato il vero motivo per cui esistono conventi (e monasteri e istituti religiosi e tutto il resto). È puro orgoglio voler realizzare da soli la propria vita spirituale: si finisce inevitabilmente per sbandare. La necessità di una “compagnia” dove essere guidati e dove aiutarsi a vicenda ha fatto sorgere le “case” religiose. Dove le esigenze comuni vengano risolte senza richiedere ad ognuno troppe risorse dove la vita di preghiera e di sacramenti sia ordinata, senza subire rallentamenti, svolte o accelerazioni a seconda di capricci e ispirazioni passeggere. Per chi desidera consacrarsi seriamente a Cristo,[1] un buon “convento” è la via più comoda e meno rischiosa. Persino l'avere una “regola” ed un “superiore” a cui ubbidire sono un vantaggio: significa liberarsi di un gran numero di responsabilità e di scelte difficili.

Uno normalmente fa presto a dire “vedrò, saprò, resisterò”: ma una qualsiasi tempesta improvvisa può affondare la nave anche dopo decenni di perfetta navigazione. Una “compagnia” guidata è lo strumento che facilita una sfida altrimenti impossibile.[2] Il “convento” dove tutti perseguono il tuo stesso ideale - nonostante le tue e loro debolezze - è quanto di meglio tu possa desiderare per vivere fino in fondo la vocazione, vocazione che è assai più grande di quanto tu stesso non possa immaginare nei momenti di maggiore entusiasmo.

Don Giussani ha compreso tutto questo in tempi lontani. Mentre il mondo - perfino quello cattolico - si dava da fare per “ribellarsi”, “rinnovare”, “rivoluzionare”,[3] il don Giuss ha in qualche modo estratto l'essenza della vita religiosa. Chi conosce bene i Memores Domini non può non pensare che abbiano una dimora che realizza efficacemente l'ideale di “convento” sopra descritto.

Dimora non significa banalmente una struttura dove “fare vita comune”. Quest'ultimo odioso termine è figlio della mentalità moderna per cui la “vita” è qualcosa che si “fa”, il vivere è una lista di compiti da svolgere, ossia la vocazione sarebbe un mestiere, un elenco di regole. Dimora: uno strumento utile per accoglierti, aiutarti, sostenerti, riportarti in piedi quando cadi. Qualcosa che dunque in fin dei conti ti libera dai fardelli peggiori: il tentare di “capire” da solo, il tentare di “fare” da solo, il tentare di “vagliarsi” da solo...

Ai tempi in cui don Giussani era un ragazzino si diceva che entrare in un ordine religioso era un “privilegio”, rimanerci “una croce”, morirci “una grazia”. Una “grazia” perché significava l'aver combattuto fino alla fine la buona battaglia. Una “croce” perché nessuno strumento esime dalla necessità di lottare contro le proprie cattive inclinazioni.[4] Un “privilegio” perché si badava alla qualità piuttosto che alla quantità.

Che i tempi siano tanto, tanto cambiati lo si nota dalle disperanti “pastorali vocazionali” (diocesane e religiose) che descrivono il consacrarsi come un “fare”, come un'etichettina elegante di specialisti della preghiera, biglietto da visita di professionisti di cose chiesastiche, insomma, sempre un “fare”, un'attività, un mestiere, fosse anche solo il mestiere di essere “qualcosa”. Mestiere che viene chiamato pomposamente “carisma specifico”. Non propongono una dimora perché ormai non c'è più una dimora ma solo un'organizzazione: i “conventi” di oggi non attraggono più, e mentre prima avevano il problema delle troppe richieste, oggi hanno il problema delle troppe poche richieste.[5]

Nelle “pastorali vocazionali” non c'è più una compagnia: c'è invece una struttura con mille possibilità. Come se fosse un club o un partito a caccia di aderenti. Una sorta di accattonaggio di vocazioni che arriva spesso al grottesco: penso per esempio a certi ordini femminili che si affannano a rastrellare giovani africane e asiatiche[6].

Non riesco a vedere oggi negli ordini religiosi tradizionali (e nemmeno in quelli di recentissimo allestimento)[7] qualcosa che somigli almeno vagamente a ciò che don Giussani chiama dimora e che anima la vita dei frutti del movimento di CL (Memores, Cascinazza, San Carlo...) Sembra che solo i religiosi più anziani abbiano ancora memoria di ciò che era la vita consacrata prima della grande deriva del dopoguerra (che ha “fatto il botto” nel '68 e continua ancor oggi).


1) Il consacrarsi a Cristo può avere diverse forme (monaco, suora, prete...) che purtroppo nella parlata comune vengono erroneamente intese come mestieri. “Fare il prete” (piuttosto che “esserlo”), “fare il monaco contemplativo” (inteso come emettitore di preghiere), “farsi suora” (percepito come il farsi assumere in un'aziendina a conduzione femminile), eccetera: la riduzione tutta moderna della vocazione ad una “funzione”, un mestiere, un darsi da fare in nome della produzione di qualcosa che suoni “utile”.

2) Non mi risulta di santi eremiti recenti.

3) In coincidenza col Concilio Vaticano II si è assistito allo svuotamento di conventi, all'abbandono della veste talare e dell'abito religioso, si è fatta strada la mondanizzazione e la ridicolizzazione della vocazione: “il nostro carisma è l'ospitalità”, mi diceva qualche giorno fa l'anziana suora tarchiata che gestiva la “casa di spiritualità”, cioè un alberghetto con cappella. Quelle suore si sono a poco a poco trasformate in cameriere e sguattere stipendiate e con qualche momento accessorio di preghiera comune. La presenza della cappella in tali alberghetti (generalmente arredata con pessimo gusto) è solo uno dei vari servizi per la clientela. La loro “testimonianza” cristiana è ridotta al più a qualche quadretto religiosetto appeso al muro e ad un abito “religioso” che ricorda più un grembiule da vecchia badante che la divisa della consacrata.

4) Una mela guasta rovina l'intero cesto. Tanto più se la mela guasta è il “superiore” della casa religiosa: cedendo alle proprie cattive inclinazioni, o anche solo scendendo a compromessi, può devastare in poco tempo l'intera comunità.

5) Il peggior biglietto da visita di una comunità religiosa è solitamente il suo manifestino di pastorale vocazionale: vi si notino il font di caratteri utilizzato, il disegnino illustrativo, i colori utilizzati e la banalità del titolo che vuole a tutti i costi apparire simpaticamente controcorrente.

6) Il talent-scouting delle vocazioni femminili extracomunitarie si basa su un versetto da “quinto evangelo” del commendator Migliavacca: “seguitemi! vi darò un tetto e un piatto caldo”. Certe congregazioni femminili, fino a non troppi anni fa rigogliose di preghiera, testimonianza e vocazioni, si sono ridotte a piccola imprenditoria alberghiera a disposizione di gruppetti di cattolici imborghesiti. Anziché lasciar morire serenamente di vecchiaia la propria congregazione la eutanasizzano sotto forma di “casa di spiritualità”, per di più con una certa fretta perché alla loro età hanno bisogno di badanti e cuoche.

7) Il generale degrado della vita religiosa si nota in particolare quando i diretti interessati parlano del proprio “carisma”: hanno la stessa faccia e la stessa cadenza del dirigente che parla della “nicchia di mercato” su cui è specializzata la sua azienda.

domenica 1 settembre 2013

Come se fossero stati forgiati dalle verità della fede

Qualche tempo fa mi è capitato di assistere ad una conversazione tra alcuni Pezzi Grossi di una Grande Azienda italiana. Non so se per effetto del buon vinello in tavola o per reale convinzione, avevano una sincera nostalgia dei Bei Tempi Andati, di quando gli uomini erano uomini e amavano il proprio lavoro oltre che saperlo far bene.

Nel loro raccontare, episodi di quotidiano eroismo si susseguivano con precisi nomi, date e luoghi. Di quando quegli operai, che neanche sapevano scrivere il proprio nome, subito dopo un terribile nubifragio rimisero in funzione seimila cavi di collegamenti in tre ore. Di quando in autostrada durante una piovosa alba l'autista anziché frenare azzardò un sorpasso veloce evitando così di coinvolgere l'autobus carico di sonnecchianti operai in un pericoloso tamponamento. Di quando la suddivisione territoriale lasciava una tale autonomia, che gli “armadi” in ghisa con le apparecchiature erano ficcati ovunque, e nei paesetti persino nelle cantine delle case private, e riuscivano a far funzionare tutto senza elaborare complicate strategie di backup e disaster recovery. Di quando un semplice operaio trovatosi per caso davanti ad un'emergenza seppe velocemente manovrare con sangue freddo e perizia evitando un incendio e altri costosi danni, venne ricompensato solo con una lettera di encomio e non fece una piega.

Nei bei tempi andati c'erano sì pigri e furbetti, ma la mentalità più diffusa, dal vertice più alto fino all'ultimo degli operai, comprendeva la fierezza del far bene il proprio mestiere e un solido senso di lealtà verso l'azienda. I Pezzi Grossi, nel susseguirsi dei loro ricordi, aggiungevano dettagli e date per far capire che non stavano gonfiando i fatti, e con ciò sembravano quasi domandarsi da cosa fossero nate quelle virtù oggi praticamente scomparse.

Per un attimo mi è parso che uno di loro stesse deducendo davvero l'unica esatta spiegazione. Che non c'entra con le vicende politiche ed economiche del dopoguerra, né col benessere percepito o desiderato, né con un presunto attaccamento alle virili virtù così come venivano celebrate dalla retorica fascista. C'entra invece con la percezione della dignità del proprio lavoro, del lavoro come proseguimento dell'opera creatrice di Dio, dell'espressione di una positività, di un desiderio. Il dirigente aveva infatti detto che quegli uomini sembravano aver chiaro il senso delle cose e la preziosità della propria opera, «come se qualcuno li avesse tutti educati a ciò fin da bambini».

giovedì 29 agosto 2013

L'epidemia di ipersuscettibilità

Nell'era delle tecnologie, della cultura, delle conquiste scientifiche, della laurea di massa, un nuovo tipo umano s'avanza: quello riducibile ad un banale fascio di reazioni.

Mi sono scontrato ancora una volta con uno di questi casi. Fino ad oggi la maggiore evidenza che ricevo dalla società contemporanea è quella di una diffusissima malattia epidemica: l'ipersuscettibilità (di cui il politicamente corretto e l'ipocrisia borghese sono solo i sintomi, non la causa). Recentemente ho avuto l'ennesima possibilità di osservare da vicino uno dei virus che provocano quella malattia.

Il caso in questione ha un che di paradossale. Tizio accusa Caio di odiare Sempronio, vantando prove che si rifiuta di dare. Sempronio odia Tizio ma gli crede pur sapendo che le accuse sono false. In questo si inseriscono Tizia rifiutata da Caio e Sempronia segretamente innamorata di Tizio, anch'esse propense a credere a ciò che la ragione e l'evidenza indicano come falso. Sullo sfondo c'è anche Caia a muovere guerra un giorno a loro, un giorno agli altri, per motivi non difficili da identificare come invidie del momento. Tutto un ridicolo e mutevole castello di insinuazioni, un articolato intreccio di accuse e menzogne, che ha strascichi anche su lavoro e famiglie, e che sarebbe tremendamente noioso anche solo cercare di riassumere.

La loro costante fondamentale è l'aver ridotto arbitrariamente i criteri per distinguere la verità ad uno solo: la sensazione del momento. È come se ognuno dei partecipanti di questo spettacolo autogestito dicesse qualcosa come: oggi mi sento generoso, perciò la verità è questa cosa che vedo in questo momento. Oppure: oggi mi sento innamorata, perciò la verità è lui, anche se mi ha respinta mentendo e umiliata di proposito. Oppure: oggi mi sento annoiato, per cui qualsiasi cosa incontro è da qualificare come falsa e aggressiva. Tutto cortocircuitato alla prima sensazione.

L'uomo ridotto ad un fascio di reazioni è il prodotto perfetto della rivoluzione iniziata cinque secoli fa e in continuo crescendo. La ragione totalmente soggetta alla sensazione del momento, a sua volta guidata da piccinerie e da fattori del tutto casuali. Le cose importanti della vita devastate in un attimo di temporanea simpatia o antipatia. L'amore ridotto ad una pretesa passeggera e infondata. L'odio profondo, gratuito, devastante, cieco, perfino a sé stessi, qualora sia percepito come supporto per la sensazione del momento. E perciò anche l'allergia a qualsiasi cosa possa essere vagamente percepita come misericordia. Infine, naturalmente, la totale frustrazione di qualsiasi tentativo di tirare in ballo ragionevolezza ed evidenze.

Una delle prime domande che mi posi nel conoscere l'opera di don Giussani è come mai avesse dato tanto spazio a temi come la ragione, il sentimento, l'incontro, il senso religioso... Davo cioè per scontato che fosse ragionevolmente facile poter discutere rimanendo onesti con la realtà. Pensavo che non fosse troppo difficile far venir fuori un po' di evangelica “buona volontà”. Non immaginavo neppure lontanamente che don Giussani si fosse scontrato proprio con i devastanti effetti di quell'epidemia, diagnosticandola proprio alle sue origini.

“Effetto Chernobyl”, lo aveva chiamato. Fuori sembra tutto lo stesso di prima, dentro è invece tutto devastato e ridotto ad un fascio di reazioni, di passioni di un attimo, di sensazioni momentanee. Fuori è un'apparenza di razionalità, di organizzazione, di criterio; dentro, invece, tutta l'energia umana è a disposizione della sensazione del momento. Tutto costruito sul nulla, come una bolla di sapone che può svanire da un momento all'altro.

Avere non dico un rapporto, ma almeno un brevissimo e banalissimo dialogo, con quel genere di persone, è una pura lotteria. Una singola parola inoffensiva può scatenare guerre infinite, come sopra accennato; uno sguardo qualsiasi (persino quello di totale approvazione) può scatenare l'apocalisse; e in tutto questo anche le più elementari verità, anche le più manifeste evidenze, vengono considerate interpretazioni sbagliate, menzogne, calunnie. E non si tratta di drogati strafatti di acidi, ma di persone apparentemente “normali”, che vivono una vita “normale”, con cui pensavi di avere un decennale rapporto di “normale” amicizia.

E improvvisamente scopri l'inutilità del sudare sette camicie per far notare una lampante evidenza: sono davvero venuti i giorni in cui comincia a diventare necessario mettere mano alla spada per poter affermare che il cielo è blu.

domenica 25 agosto 2013

Al ritorno dal Meeting

Ripesco alcuni appunti dal quadernetto che uso da diversi anni.

Appunti a margine del Meeting 2011:
Pochi giorni prima di andare al Meeting leggevo distrattamente un articolo che diceva tra le altre cose che la parte più importante erano le mostre. Quelle parole mi hanno colpito perché l'autore, poiché troppo attento a noiose cose di politica, non sembrava uno del movimento di Comunione e Liberazione.

Sì, quest'anno pure mi sono goduto il Meeting. È stato un po' meno “faticoso” degli anni scorsi (anche come incarico ricevuto) perché ho seguito meno incontri, concentrandomi più sulle mostre. Ho avuto l'impressione che sul palco, agli incontri, ci fossero troppi politici e imprenditori: è stato come se il Meeting, nella foga di accontentare tutti gli aspiranti ospiti e di rappresentare tutti i colori politici e del mondo del lavoro, da alcuni anni stesse di fatto cedendo terreno alla mondanità, avvicinandosi (sia pure in rari minuscoli passettini) a diventare come lo definiscono i suoi denigratori: una kermesse di politici e industriali. Forse per questo i notiziari sono stati un pochino più indaffarati e compiaciuti.

Ho sempre considerato il Meeting come l'università: vai a lezione, prendi appunti, vi trovi gli amici con cui condividere quel che vedi e quel che vivi, a pranzare insieme o passare tutti allo spettacolo o a farti presentare qualcuno e la rete di amicizie si allarga fino all'incredibile. “Università” perché si apprende di tutto, “Meeting” perché hai più occasioni significative in quei sette giorni che nel resto dell'anno, e - argomento più importante - tutto permeato di quella fede cattolica, fondato su quella “ingenua baldanza” di chi è mosso da un incontro concreto piuttosto che da un progetto. Ecco perché avevo sempre pensato che vale la pena spendere quasi tutti i risparmi dell'anno per andare al Meeting.

Le “lezioni” di tale “università” erano infatti gli incontri e le presentazioni di libri e mostre: c'è sempre qualcosa da imparare, c'è sempre un testimone della fede, c'è sempre qualcuno che ti sa ridire in poche parole e in modo mille volte più chiaro ciò che hai sempre creduto. A meno che l'incontro non sia solo l'occasione pubblicitaria per qualcuno che vuol parlare di sé stesso, e che centellina parole religiose qui e là solo per tenere desta l'attenzione del pubblico.

Anche quest'anno è stata “università” ma ho bigiato più lezioni. Solo il martedì c'erano più di due incontri interessanti nella stessa giornata. Qualche anno fa mi lamentavo di non riuscire a seguire tanti incontri nello stesso giorno (mandando giù plotoni di tazzine di caffè); quest'anno ho dovuto trangugiare meno caffè.


Appunti a margine del Meeting 2012:
L'Unico Ciellino della Parrocchia è tornato dal Meeting di Rimini. Stanco (diciamo piuttosto “devastato”, visti i ritmi giornalieri) e tutto sommato felice. E come al solito carico di meraviglie materiali e immateriali, di quelle che è semplicemente impossibile trovarne traccia non dico in un Repubblica, ma almeno in Famiglia Cristiana (per chi non lo conosce, si tratta di un periodico reperibile in pressoché tutte le parrocchie italiane).

La scena più bizzarra: ai fast-food, uno dei volontari mi dice di aspettare un attimo e mi dà una pallina di gomma chiedendomi di tenergliela nel frattempo. Colgo letteralmente la palla al balzo e con una faccia seriosa gli chiedo: «È un test, signore?» Il giovane purtroppo non coglie la citazione del film Fight Club e mi dà direttamente il risultato: «promosso: nove meno!»

In realtà quest'anno il Meeting è stato meno entusiasmante. Se negli anni scorsi era stato 100, 98, 97, quest'edizione valeva 95.

Quelle che chiamiamo “ingenua baldanza” e “riconoscere una Presenza” hanno sempre fatto registrare crescite a due cifre al Meeting come alle altre grandi iniziative ispirate da gente del movimento. Per cui l'avvertire un calo di qualità (degli incontri), nonostante la quantità (di visitatori) sia abitualmente in aumento, comincia a far affacciare qualche perplessità.

Le mie non troppo invidiabili condizioni economiche contribuiscono a farmi vedere con più anticipo questo genere di “calo di zuccheri”.

In sintesi: si comincia ad avvertire come invadente la presenza di politici e imprenditori al Meeting.


Appunti a margine del Meeting 2013:
La miglior impressione del Meeting di Rimini di quest'anno è stata alla mostra Il volto ritrovato, sulla storia delle immagini acheropite, dalla Camulia al volto santo di Manoppello.

Ma quest'anno in più di un momento al Meeting avevo come una nostalgia di quando le cose “andavano meglio”. E no, non era dovuto alla stanchezza. Era dovuto invece ad un evento inaudito: mi sono ritrovato alcune volte ad avere tempo libero, cioè senza altri incontri e mostre da seguire. Inaudito.

Il fatto è che ho sempre considerato il Meeting un'opera del movimento destinata a me. Per questo soffro nel vederlo anche arretrare di un centimetro, soffro nel prevedere la sua riduzione a ciò che era stato sempre ingiustamente etichettato: una passerella estiva per inutili personaggi in cerca di applauso. Inutili personaggi che non hanno nulla di concreto da insegnarci e che dal Meeting non riescono neppure ad imparare.[1]

Tutti i sacrifici che ho fatto per il Meeting in tanti anni sono sempre stati ampiamente ripagati. La mia “università estiva”, lo chiamavo scherzosamente le prime volte (meravigliandomi di come altri amici del movimento lo considerassero poco più che una sagra paesana a cui presenziare perché “che fai? sei ciellino e non ci vai?”).

Il Meeting è per me, non per i personaggi che le alte sfere ritengono utile applaudire. Ricordo quando raccontavo con entusiasmo agli amici dell'aver seguito “lezioni” di filosofia, di matematica, di politica, di musica classica, di architettura, di poesia, di scienze, con avido entusiasmo. Qualsiasi argomento “libresco” diventava vivo.[2] Sentir parlare di filosofia senza aver tempo di annoiarsi: solo al Meeting poteva capitare. Sentire Rondoni declamare le sue poesie e stupirsi e capire che la poesia è davvero qualcosa da uomini, non un argomento “libresco” per professori incartapecoriti.

E soprattutto argomenti riguardanti la fede. Ho potuto ascoltare e addirittura conoscere di persona scrittori e giornalisti di cui avevo avidamente comprato i libri. Ho potuto appassionarmi a cose che prima pensavo essere curiosità per preti addetti ai lavori. Ho dovuto pianificare accuratamente gli incontri da seguire perché troppe cose interessanti si accavallavano.

Quest'anno no. Durante la settimana del Meeting mi sono ritrovato con dei momenti liberi. Non credo di essere molto cambiato, in questi anni: dal Meeting (che è per me) chiedo sempre le stesse cose. Forse è il Meeting che sta invecchiando: per verificarlo basta scorrere le guide del Meeting di questi ultimi anni.[3]



1) Al Meeting avevamo scoperto l'inaudito: entro determinate circostanze, si può imparare qualcosa anche ascoltando un personaggio un po' discutibile. Ecco: non sempre ci sono le “determinate circostanze”. Ci si può ritrovare a dover applaudire un personaggio insignificante e noioso, se non addirittura totalmente discutibile.

2) Don Giussani, ai primi anni di seminario: sì, Cristo c'entra anche con la matematica. Era da un bel pezzo che nella Chiesa non si sentiva ricordare una simile ovvietà.

3) Un episodio di quest'anno. Una delle giovani ragazze della militanza con l'incarico più ingrato, quello di vendere i biglietti della lotteria Meeting, in un caso si è sentita rispondere: “no, non intendo più sostenere il Meeting”. Ma il suo capo ha banalizzato l'episodio: sono cose che succedono, non farci caso, qualche matto o deluso si trova sempre. Se fosse capitato a me ci sarei rimasto con la mascella a terra: possibile? come si fa a non voler sostenere il Meeting? Chissà se il capo sarà stato disposto ad interrogarsi su questo piuttosto che sul numero di biglietti invenduti.

domenica 28 luglio 2013

Rifugiarsi in una tifoseria

Non è che non scrivo più. Al contrario. Scrivo troppo. Ma sempre più raramente riuscivo a licenziare una pagina. Da quando un prete del movimento dall'altra parte del pianeta in poche righe mi ha correttamente diagnosticato e mi ha indicato una cura, devo esser diventato un po' troppo pedante sul decidere che una pagina sia pubblicabile. Ho la cartella bozze del blog con ben 244 pagine incomplete che spaziano un arco di oltre tre anni. E che ci crediate o no, le righe qui sotto le avevo scritte nell'aprile 2010 e dimenticate lì perché non me la sentivo ancora di “approvarle” per la pubblicazione:
L'ultima spiaggia dei cattolici delusi è presentarsi (ed agire, e pensare) come la tifoseria del Papa. Se mi grido “dalla parte del Papa” faccio sempre la figura del cattolico, no?

Il fatto è che anche il Papa è una figura passeggera. Anche se “vicario di Cristo”, il Papa non è un robot. Anche se imbottito di santità, il Papa potrebbe non avere in ogni momento tutte le qualità adatte a tutte le circostanze.[1] Nostro Signore chiede: «mi ami tu più di costoro?» e garantisce che «le porte degli inferi non prevarranno», ma il singolo Papa (vien da dire: perfino il Papa!) la ricompensa eterna deve pur guadagnarsela... proprio col munus più delicato dell'universo.

Il successore di Benedetto XVI potrebbe non essere affatto all'altezza. E tutte quelle tifoserie, tra silenzi imbarazzati e tentativi di spacciare per importantissimi temi del tutto secondari, subiranno cocenti delusioni e una notevole diminuzione di combattività. Ed è anzitutto per questo esatto motivo che alcuni lupi travestiti da agnelli fomentano, con diabolico zelo, eleganza e discrezione, il “papismo da stadio”. Che io vedo impersonato in modo particolare in due esempi.

Il primo: le adunate oceaniche di giovani attorno al Papa, materializzazione di una “tifoseria cattolica” tanto desiderata da quegli ecclesiastici che hanno il televisore come compagnia della sera. Come se il cristianesimo avesse bisogno di mostrare i propri numeri all'ipermercato delle religioni.

Il secondo: il gridarsi “dalla parte del Papa” solo per affermare un'identità “politica”. Come se il cristianesimo dipendesse da quello che fai anziché da quello che sei, come se la fede coincidesse con un elenco di cose da dire e da fare anziché semplicemente riconoscere una presenza.

L'inganno di cui tanti cattolici non si avvedono è che è stato loro spento il dibattito sulle cose serie della vita.[2] Con una manovra a tenaglia semplice e ben pianificata. Da un lato ci facciamo dettare l'agenda dal telegiornale della sera e dai titoloni sbattuti in prima pagina sui giornali del mattino. Dall'altro ci riproponiamo a vicenda una “fedeltà al Papa” che, se non è scontata, è certamente più che condivisa. Un salutista non ha bisogno di gridare continuamente agli altri salutisti “bando alle sigarette”, tanto più quando costoro già lo stanno gridando a loro volta.

Non si è mai parlato tanto cattolico quanto in questi tempi: eppure è solo un “parlare”, è tutto uno schierarsi pro o contro la buzz-word del giorno proclamata dai giornali, è tutto un continuo dichiararsi “dalla parte del Papa” come se si rispondesse ad immaginari sondaggi, è tutto un affaticarsi a esibire al mondo (cioè sui media che accettano lo spettacolo) una specie di “tifoseria del Papa”, come se la Chiesa fosse un partito a caccia di voti o un'azienda che deve ricuperare quote di mercato.

Compiuta poi la quotidiana buona azione di tifoseria, ci si può comodamente crogiolare nei soliti “ma dai”, “beh”, “comunque”, “ora ho altre cose a cui pensare”.
Per essere “profetici” non ci vuole poi tanta fatica: basta tenere gli occhi aperti... ma non sul televisore.

L'elezione del nuovo Papa, proprio coi voti di coloro che avevano fatto di tutto per inguaiare Benedetto XVI, ha avuto come primo “miracoloso” effetto l'immediato cessare degli attacchi. Fino a non troppi mesi fa sembrava che il papato fosse a capo di ogni iniquità e di ogni scandalo, con la prevedibile pavloviana reazione di certo cattolicume: tutti a fare i tifosi del Papa... operazione che ora sembra diventata faticosa, a tratti persino imbarazzante, e non più così urgente come prima.

Ciò che oggi non sembra chiaro nel mondo cattolico distratto e dalla memoria corta, è che siamo di fronte alla classica manovra del fil di ferro, per spezzare il quale occorre piegarlo con forza in una direzione, e poi piegarlo con forza nella direzione opposta,[3] per più volte. Intendo dire che mentre è vero che i Pontefici non ce li scegliamo noi, è purtroppo altrettanto vero che da cattolici abbiamo stupidamente accettato di farci dettare l'agenda dalla televisione e dai giornali. Cosicché l'ovvia differenza di stile e di caratteristiche di due pontefici diventa il punto in cui il fil di ferro viene piegato una volta di qua e una volta di là, fino a spezzarci.


1) Anche l'apostolo Pietro, primo Papa, ebbe un po' troppo rispetto umano “per timore dei circoncisi”. Al punto che gli ci volle nientemeno che il pubblico rimprovero dell'apostolo Paolo (Gal 2,11-14).

2) Per esempio, è un vero tormento vedere che l'esigenza di accedere con frequenza al sacramento della riconciliazione è assai meno sentita di quella del firmare speranzosi le solite inutili petizioni on-line.

3) Due mesi fa in Francia hanno arrestato dei giovani colpevoli di recitare silenziosamente il rosario. Segno dei tempi.

mercoledì 24 luglio 2013

Ancora sul diritto di lamentarsi

Un vecchio amico, credente nel laicismo e un po' anche praticante, con quel sorrisetto tipico di chi pensa di averti colto in castagna mi dice: «e così ora censurano i blog ciellini, eh?» Resto senza parole, per lo più chiedendomi come abbia fatto a scoprire che ho un blog.[1] Ma poi, deludendo le sue più rosee aspettative (e senza dirgli che ho un blog), gli faccio presente che non esiste nessuna “censura”, tanto meno dai vertici del movimento, ma solo la raccomandazione (ovvia) di non sostituirsi ai siti web di Tracce e del movimento quanto alla pubblicazione di trascrizioni di incontri, appunti, notizie, immagini riguardanti la vita del movimento.

Il vecchio amico però non ci sta a farsi umiliare così velocemente e sfodera subito la sua arma segreta: a pagina undici del libretto degli avvisi (sic) ci sarebbe la prova provata, la pistola fumante, la certezza definitiva della Censura Ciellina, che mi sarebbe sfuggita nonostante le attente letture. E che in realtà si limita ad affermare quanto detto sopra.

Non mi limito ad deriderlo invitandolo a leggere insieme quella “pagina undici”, no. Gli chiedo di riflettere un minutino su come mai i blog ciellini sarebbero così tanto informativi da far concorrenza nientemeno che ai vasti siti web ufficiali di CL. Per trovare notizie precise sull'Inter, ci si fida di più del suo sito web ufficiale o del blog di qualche interista passaguai? E se un giornalista costruisce una notizia sui malumori di tre o quattro blogger interisti, che evidenza abbiamo? sta facendo informazione sull'Inter oppure sta perdendo tempo in modo da farne perdere ad altri?

Il blog di un tifoso non rappresenta la squadra per lo stesso motivo per cui queste mie paginette non rappresentano CL ma solo me - e nemmeno tanto, di me: “l'unico ciellino della parrocchia” (e non per modo di dire), che butta giù qualche riga in fretta e furia quando ha tempo, non perché siano cose che gli paiano importantissime ma perché in quel momento lo hanno colpito.

Scrivere aiuta a riflettere, a fissare le idee, a trovare le parole giuste per farsi comprendere da qualche raro sconosciuto che piove qui da Google cercando tutt'altro. È una piccola lotta contro il politically correct, contro i luoghi comuni di tutti i giorni e le solite banalità in cui siamo costretti a nuotare, contro la pigrizia del fare eco (copia e incolla) di notizie altrui... insomma, è un po' un'ascesi, si parva licet componere magnis.


1) E mi ero chiesto anche se avesse letto le mie recenti geremiadi il carro sul pendio e sul diritto di lamentarsi, contro certo “ciellinismo da salotto” che discetta di esperienze non realmente vissute.

domenica 21 luglio 2013

Sul diritto di lamentarsi

La prima cosa che si fa al momento della nascita è lamentarsi, cioè tentare di spiegare al resto del mondo che qualcosa non va bene, e con ciò domandare aiuto a chiunque possa darne. A quei vagiti, negli anni successivi, si aggiungono numerose altre sofisticate forme di lamentela, tutte sullo stesso schema: accertato che qualcosa non va, impossibilitati a identificare rapidamente una soluzione operativa ed efficace, tentiamo di proporre delle dolorose certezze all'attenzione altrui.[1]

Purtroppo in questo mondo ingiustizie, miserie e sofferenze sono tante e tali da far sembrare fastidiosa qualsiasi lamentela. Col risultato che a lamentarsi poco, si finisce per dare l'impressione che non c'è un vero problema, a lamentarsi troppo si finisce per dare la stessa impressione, e a lamentarsi moderatamente si finisce per far credere che si tratta solo di una seccatura come tante altre, non meritevole né di attenzione né di trattamento urgente.

Orecchie sagge sanno estrarre dalla lamentela più complessa e bizzarra l'effettiva necessità che l'ha fatta sgorgare. La virtù del santo è non solo nel saper ascoltare il lamentoso ma anche nel saper dare un nome preciso al problema e descrivere la soluzione in modo comprensibile. La raccomandazione spirituale del lamentarsi il meno possibile è in realtà un incoraggiamento ad allenarsi ad osservare, comprendere, capire tutti i fattori della realtà.

Ieri tentavo di riflettere sulla diffusa epidemia di imborghesimento spirituale nel movimento di CL. Ciò che tentavo di rendere chiaro ai miei quattro o cinque lettori è che vedo tutto intimamente connesso: la Chiesa si indebolisce perché la fede si indebolisce,[2] nel movimento di CL si diffonde l'imborghesimento perché nella Chiesa tutta è in corso la stessa epidemia. I cristiani, sale della terra, finiscono per essere uguali agli altri, senza sapore.[3] Per me tutto questo è più facile da riconoscere perché vivo circondato da persone pregiudizialmente ostili a CL e i gruppi del movimento che posso raggiungere in tempi e modi ragionevoli manifestano proprio quei segni di imborghesimento contro cui ci metteva ripetutamente in guardia don Giussani.

Non c'è niente di più noioso delle omelie ciellinizzate di coloro che (involontariamente, talvolta persino in buona fede) riducono il movimento di CL ad un club dotato di un suo gergo, di suoi libri, di suoi canti, di sue attività. È l'unica, vera, concreta critica che ho accettato di discutere in questi anni, dal momento che gli altri “difetti” di cui viene quotidianamente accusato il movimento sono o i difetti presunti di un singolo oppure equivoci involontari o deliberati su cosa siano esattamente CL e la Chiesa cattolica. Io sono il primo a lamentarmi di “giussanologi” e “cielloti” perché ne sono la prima vittima. Di fronte alle omelie ciellinizzate, i primi sbadigli sono i miei.[4] Quando la scuola di comunità si riduce a un collage di noiosi “interventi”, le mie gambe si muovono da sole, spostandomi altrove. Quando il buono di CL lo riesco a estrarre solo da Tracce e dagli Esercizi Spirituali della Fraternità, quando coloro che stimo di più sono parecchi chilometri più in là dei gruppetti di fraternità dei dintorni, capisco che qualcosa non va bene, che il movimento così come l'ho conosciuto è -almeno in queste lande desolate- arretrato, se non addirittura soppiantato, rispetto al movimentismo di “giussanologi” e “cielloti”. Che ci sono sempre stati, ma non mi erano mai sembrati così tanti.[5]

Un tempo la fatica era spiegare cos'è il movimento a coloro che ne erano fuori. Ora la fatica è dover ri-spiegare cos'è il movimento a tanti che dicono di farne parte (come se fosse un bel club), la fatica è dover ri-chiarire e ri-spiegare “cosa c'entra Cristo”. Opera su cui evidentemente si sta cimentando anzitutto il don Carròn.


1) Persino il chiedere preghiere è tutto sommato una forma di lamentela.

2) Un feroce e dettagliato atto di accusa sulle storture della Chiesa contemporanea è l'enciclica di “Benedetto XVIII”, Quanta cura in cordibus nostris, scritta in maniera “papale”, elegante, nel senso di una lamentela non lamentosa. Ma nonostante la notevole raffinatezza della penna che l'ha redatta dubito che scuota davvero gli animi degli ecclesiastici che la leggeranno. Anche la più “positiva e propositiva” delle lamentele... viene percepita come una lamentela.

3) Ciò che avviene nel movimento rispecchia ciò che avviene nella Chiesa. Questo è talmente vero, che si può verificare perfino se ci limitasse al campo della statistica. Chiunque sia convinto come me della bontà del movimento, non finisce mai di notare quanto le vicende della Chiesa e quelle del movimento si somiglino.

4) Le omelie ciellinizzate sono i discorsini imbottiti di parolame ciellino, fini a se stessi anche quando tentano di esprimere qualcosa di intelligente, ma solo chi non è “imborghesito” può notare la differenza rispetto a ciò che è davvero l'anima del movimento. Un esempio facilmente riconoscibile di “omelia ciellinizzata” è quando qualche alto papavero della Chiesa viene a celebrare Messa per il movimento e sciorina un'omelia zeppa di citazioni di don Giussani (una captatio benevolentiae, insomma).

5) Ricordo, ai bei tempi, un lungo viaggio in auto con due amici in cui ridemmo a crepapelle per ore intere ironizzando sulle meschine manovrine di certi capetti dell'epoca, intese a consolidare il potere sui piccoli feudi ciellini che pensavano di aver conquistato e l'ascendente sulle numerose donne che pensavano di dover conquistare. Pare purtroppo che oggi siano alquanto aumentati i motivi per deridere.

sabato 20 luglio 2013

Il carro sul pendio

Uno dei momenti che mi hanno maggiormente colpito quest'anno negli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione è stato quando don Carròn ha rendicontato entrate e uscite. Nel 2012 è stata raccolta in Italia mezza dozzina di milioni di libere offerte (“fondo comune” degli aderenti alla Fraternità), cioè 200.000 euro in meno dell'anno scorso. Nello stesso anno le spese sono aumentate di 200.000 euro solo di tasse sugli immobili.

Sono misere briciole rispetto ad altri ambienti (non solo ecclesiali), specialmente in tempi di crisi, briciole su cui grava ogni anno una pioggia di nuove tasse. È stata una doppia stangata contro le opere del movimento (caritative, editoria, eccetera), tanto più che don Carròn notava con ironia che c'erano almeno tremila partecipanti agli esercizi che non avevano mai versato neppure un centesimo.[1]

Chi nutre davvero fiducia in qualcosa, mette mano al portafoglio quasi senza accorgersene. Si spende con gusto, per ciò che ci inonda il cuore. Difficile pensare che sia colpa della sola crisi economica.[2]

C'è un altro evento che mi ha colpito. C'era stata un po' di sorpresa, nel salone, coperta da un non proprio universale e convintissimo applauso,[3] quando don Carròn ha dato lettura del telegramma di auguri e di ammirazione inviato al rieletto presidente della Repubblica. Qualche giorno dopo ho saputo di amici che non verseranno più un centesimo alla Fraternità finché non ci saranno adeguati chiarimenti sulla aumentata «ammirazione» ivi espressa.[4]

La notizia è talmente inaudita che mi ha lasciato di sasso: è come se uno mi dicesse che ha deciso di smettere di respirare. Per me già suonava assurda fino al comico la notizia che tremila sedicenti ciellini abbiano partecipato agli Esercizi senza aver mai versato nulla al fondo comune (riducendo così il movimento di CL ad una faccenda intimistica per il tempo libero).

Nella ripresa della scuola di comunità, altra scenetta da teatrino dell'assurdo: un insulso fiume di parole dai mille rivoli, attorno alla grazia e alla libertà, senza che se ne venisse a capo. Mi sono seriamente chiesto se avessero già dimenticato il Catechismo. E sono stato preso da un po' di nostalgia per quei tempi in cui si andava “assetati” alla scuola di comunità per capire, per domandare, per imparare, per seguire, per guadagnare certezze sulla fede e sulla Chiesa... E lì invece, proprio a margine degli esercizi, proprio dopo che don Carròn ha richiamato con pazienza e precisione ciò che dà origine al movimento, vedevo ricominciare di nuovo il fiume degli “interventi”. Certe volte si sente il bisogno di parlare per trasmettere qualcosa di bello e di grande: certe volte, appunto. Tutte le altre sono soltanto un dare aria all'ugola, trasformando gli incontri in un collage di improvvisazioni di noiose omelie “ciellinizzate”.[5]

Noiose omelie e dunque noioso burocraticismo. Come l'anno scorso, in quello sguardo gelido inteso a fulminarmi perché avevo osato nominare la lettera di don Carròn al Papa che era trapelata sui giornali, lettera che lasciava capire ciò che tutti -amici e nemici- avevano sempre saputo, con o senza soffiate giornalistiche. È legittimo essere restii a parlare di quella lettera: non siamo così tonti da farci dettare l'agenda da (vere o false) “rivelazioni” giornalistiche del momento. Ma in quello sguardo burocraticamente gelido del capetto si condensava una malintesa ubbidienza ad un presunto ordine di nascondere e dimenticare una presunta vergognosa macchia del movimento.

La crisi di CL consiste dunque nell'imborghesimento. Cioè nel ridursi a “giussanologi”, dotati di gergo elegante, libroni difficili da leggere[6] sui quali qualche capetto si compiace di elargire articolate spiegazioni, tutti assetati delle Notizie del Giorno sulle quali emanare un giudizio prevedibile e ciellinizzato.[7] Oppure nel ridursi a “cielloti”, dotati di gergo elegante, attività socioculturalcaritative belle, utili, elaborate e dispendiose, tutti presi dalle Notizie del Giorno sulle quali imbastire un discorso ciellinizzato ed un'ulteriore attività intra- o extra-parrocchiale.

Il tutto sottilmente scollato[8] dal carisma del movimento (quello che impercettibilmente e imprevedibilmente trasforma la vita da così a così, come per Edimar), e per di più fatto come se si dovesse sfuggire alla minacciosa domanda televisiva: ma tu non fai mai niente di ciellino? Non c'è bisogno di essere ciellini per fare i “cattolici auto-impegnati”, categoria ultimamente gradita alle burocrazie laicali e clericali.

C'è stato un tempo in cui il movimento di Comunione e Liberazione era in continua crescita.[9] Non solo seminaristi cacciati via, preti e vescovi ostili, curie rabbiose e neroniane, ma anche pestaggi gratuiti, attentati incendiari, gambizzazioni a pistolettate: il movimento era qualcosa di genuinamente cristiano e otteneva quel trattamento perché era correttamente percepito come tale. Ora siamo nella fase di decrescita, cioè la fase degli applausi mondani dati e ricevuti, la fase della “istituzionalizzazione”, ovvero la riduzione ad etichette e attività: una crisi che ha origine all'interno del movimento, non più eccezioni sporadiche ma tumefazioni sparse a macchia di leopardo,[10] qualcosa che davvero non va bene. Come se la parte genuina del movimento stesse cedendo terreno. Ne parlo col mio migliore amico e mi sento ripetere, tra le risate, che è inutile affaticarsi a trattenere il malridotto carro che sta sbandando sul pendìo.

“Speriamo che sia tu a perturbare l'autoreferenzialità del tuo gruppetto di fraternità”, rispondeva don Carròn ad un giovane che con sgomento aveva scoperto che il movimento all'università era più vivo e vero di quello che ha trovato tornando al suo paesetto al termine degli studi. Solo che la perturbazione delle anime intiepidite non verrà dall'effettuare una qualsiasi sequenza di operazioni. L'orgoglioso e pigro imborghesimento di tanti che amano qualificarsi ciellini, abituati ormai alla “mangiatoia bassa”, sta silenziosamente devastando il movimento, e l'ho percepito con dolore agli scorsi Esercizi. Mi sento spesso circondato da gente con una strana miopia spirituale: pronti a lottare per la difesa della libertà del singolo pelo del leone, ma incapaci di avvertire la pericolosità del leone intero e affamato che ci sta puntando. Sedicenti ciellini che sono solo dei “cattolici adulti” con qualche frase di don Giussani infilata qua e là.

Don Giussani nel 1981, dopo la sconfitta del referendum contro la legge sull'aborto, disse che a quel punto sarebbe stato bello ripartire in undici. Potrebbe darsi che presto don Carròn si ritrovi a ripetere quelle stesse parole.


1) Per le libere offerte degli aderenti alla Fraternità (il “fondo comune”) conta solo la fedeltà del gesto, non la quantità di soldi effettivamente versati. Infatti non esistono né quote prefissate né controlli, ma solo statistiche.

2) Le opere del movimento di CL sono frutto della libera generosità dei singoli. Non ci sono Piani Quinquennali da rispettare, né previsioni di gettito da assicurare, né moralistiche verifiche di moralistiche tassazioni. Per questo c'è una dose annuale di sacrosanta ironia su coloro che si comportano come se CL fosse una qualsiasi delle disincarnate spiritualità che offre il supermarket delle religioni.

3) Tempi, molto giornalistically correct, lo chiama invece "lungo".

4) Il dovuto rispetto per le autorità è sempre accompagnato dalla franchezza, dalla chiarezza e dalla ragionevolezza dei motivi. Altrimenti è servilismo.

5) La tentazione di ridurre la scuola di comunità ad un parlatorio è proporzionale all'affievolirsi della sete di verità. Chi meno ha da domandare, più ha voglia di arieggiare l'ugola. Così mi tocca spesso dover pazientemente ascoltare montagne di parole prima di veder giungere il “dunque”. La perla è nel campo, ma per ottenerla bisogna comprarlo e perlustrarlo proprio tutto, il campo.

6) Don Giussani ha adoperato con chirurgica precisione una terminologia cristiana comprensibile. Se ne sono accorti tutti quelli che -come me- leggendo o ascoltando si sono detti: ma sta parlando proprio della mia vita! Il “gergo ciellino” è in realtà il risultato di una maniacale chiarezza nel descrivere qualcosa di vivo e di verificabile. Non come nella barzelletta dell'omelia del vescovo: “di cosa ha parlato il vescovo?” “Del peccato”. “E cosa ha detto?” “Pof, era contrario”.

7) Ancor oggi mi meraviglio di come tanti cattolici credano ciecamente nel sacro Telegiornale come fonte suprema della conoscenza della realtà (e dunque indispensabile fonte quotidiana dove attingere la “questione del giorno” su cui prendere posizione). Bramano il sacro Telegiornale allo stesso modo con cui santa Teresa di Lisieux aspettava il momento della Comunione.

8) Sorprendente e allarmante il fatto che certe comunità cielline restino sempre le stesse col passare del tempo. Si capisce non solo dal fatto che non crescono (cioè sono spiritualmente infeconde), trasformandosi in un mini-club delle stesse facce che “si parlano addosso” per interi decenni. Ma anche per il loro modo preconfezionato di vivere le cose della vita e le indicazioni del movimento. Sedicenti ciellini che discettano di stupore, ma incapaci di stupirsi. Chi detesta CL gioisce di tale effetto Chernobyl.

9) A titolo di curiosità si potrebbe sfogliare la rivista Tracce più recente e un numero qualsiasi di vent'anni fa per osservare le differenze (non enormi ma neppure piccolissime) tra i temi trattati e i toni utilizzati. Oppure la statistica dei partecipanti agli Esercizi Spirituali (universitari e fraternità).

10) Una delle primissime e incancellabili immagini del movimento scolpite nei miei occhi fu ciò che vidi partecipando per la prima volta ad una “Messa ciellina”: tutti inginocchiati alla consacrazione a costo di star stretti e sul pavimento, nessuno spalancava le braccia come un cretino al Pater Noster, la devozione con cui il sacerdote amministrava la Comunione... “Una vera Messa cattolica!” gridai dentro di me, sorpreso e vinto dalla gioia. Agli Esercizi di quest'anno si è vista la scena opposta: qua e là vedevo tanti che non si inginocchiavano, tanti che al Pater Noster spalancavano le braccia come dei deficienti, e più di un sacerdote frettoloso e seccato nel distribuire l'Eucarestia. Sì, nel movimento c'è proprio qualcosa che non va.

mercoledì 24 aprile 2013

lunedì 15 aprile 2013

Lo spreco come categoria universale

Sui fogli dei miei appunti ripesco per caso una delle mie vecchie freddure: “vorrei scrivere un libro che descrive l'universo e l'umanità usando esclusivamente la categoria dello «spreco»”.

Da un lato, in natura (cioè nella Creazione) vediamo lo “spreco” di Dio.[1] Le stelle e l'universo che stanno lì a provocarci a riflettere sull'infinito, stupendoci per la nostra misera piccolezza. L'infinità dell'universo di fronte alle nostre quotidiane contorsioni (fisiche e mentali): un vero spreco. Lo “spreco” sulla Terra, un'infinità di specie animali e vegetali, e poi la trasmissione della vita (umana, animale, vegetale) a partire da una percentuale di semi talmente bassa da suonare ridicola. Cose che hanno fatto pensare a più d'uno che l'intero universo sia fatto per essere osservato, l'intera Creazione sia anzitutto “spettacolo” ai nostri occhi e alle nostre anime.

Dall'altra parte, gli “sprechi” umani: il peccato come ricerca di un bene minore sacrificando un bene maggiore. Gli sprechi di attimi della nostra vita (e di minuti, ore, settimane, anni) in attesa di “qualcosa” di imprecisato, attesa inquieta e rabbiosa di qualcosa che il nostro cervello ha pianificato, magari come vogliosa adesione a quello che già si manifestava essere ingannevole. Gli “sprechi” a cascata, quando scelte capricciose, banali, sentimentali, commerciali, provocano sofferenze (piccole e grandi) incalcolabili. Lo spreco della vita, in onore a dinamiche umane fastidiosamente riassunte nella lista dei sette peccati capitali.

E il paradosso di riuscire a riconoscere tanti di questi “sprechi” (umani e divini) unito all'incapacità di tirare le più elementari conseguenze nonostante l'intelligenza di cui siamo dotati.

È ciò che mi è ronzava per la testa stamattina, vedendo quella faccia stanca, “in attesa” di qualcosa, attesa rassegnata e rabbiosa, quegli occhi spenti, quel respirare che sembra funzionale solo al ritmare i secondi che passano. Quanti battiti del cuore sprecati, quanti secondi sprecati, quanti respiri sprecati. Una vita passata aspettando un imprecisato “bel futuro” talmente improbabile che solo col più feroce dei capricci può essere ancora immaginato. “Tristezza sì, stanchezza no”, mi dice abbandonando lo sguardo ad un punto qualsiasi della parete, attendendo pigramente qualche secondo prima di rimettere il pilota automatico.[2]


1) Una simpatica presentazione "animata" delle grandezze dell'universo ci fa capire quanto siamo “piccoli” e “grandi” rispetto al Creato.

2) Ho involontariamente fatto sobbalzare dalla sedia un vecchio amico “ciellino certificato” ma da anni col “pilota automatico”. Sperando che i prossimi Esercizi della Fraternità completino l'opera. L'amicizia “operativa” è diventata routine, è diventata operatività di routine. Dev'esser peggio di una doccia gelata il risvegliarsi accorgendosi dell'imborghesimento. Che, come diceva Bernanos, è quel sottile filo di polvere che più stai fermo e più s'ispessisce... e più ti dà tremendamente fastidio sentirti ricordare che c'è.

giovedì 28 febbraio 2013

Nell'anno della fede, il Papa si ritira

Qualche giorno fa leggevo finalmente la gradita notizia della imminente chiusura dei Twitter di Benedetto XVI. La scusa ufficiale è che con la sede vacante non è il caso di tenerli attivi. Il motivo inconfessabile è che gli ideatori della sesquipedale iniziativa hanno finalmente intuito che utilizzare la figura del Santo Padre per favorire l'imminente ingresso in Borsa di un'azienda americana, con vastissimo corollario di irrisione e insulti, è stata semplicemente una pessima idea. Che purtroppo non è estranea da una diffusa mentalità.

Certo cattolicume parrocchiardo dalla pancia piena e dalla connessione internet sempre funzionante pensava che ostentare sul proprio blog immaginette da tifoseria papista fosse sufficiente per stare una spanna al di sopra dei tiepidi e dei cretini. Tifoseria che generalmente plaudiva compiaciuta ai patetici tweet dell'apposita équipe vaticana che riduceva le lezioni di Benedetto XVI a melense frasette da incarti di cioccolatino. Si illudeva che bastasse “prendere posizione”, magari con tre righe di proclama sulla propria bacheca Facebook e qualche re-tweet per mantener viva e scalpitante la santa Chiesa. E all'improvviso arriva la doccia fredda delle “dimissioni” del Papa. Che sconvolge anzitutto i semplici. Che sconvolge chi veramente ama il Papa.

Mia madre, stupita e allarmata, mi chiedeva: “ma tu non dicevi che il coriaceo Papa tedesco non si sarebbe mai dimesso?” Non sapevo cosa rispondere. Ancor oggi non so cosa rispondere. Neppure il giudizio di don Carròn mi basta di fronte allo sbigottimento di mia madre. Specialmente domenica scorsa a mezzogiorno, quando sul TG4 vedevamo la diretta dell'ultimo Angelus mentre il cineoperatore indulgeva sullo striscione “Comunione e Liberazione”. Oppure ieri, quando alla sua ultima udienza è stato accolto ancora una volta non dalla sincera supplica di resistere e di ritirare le “dimissioni”, ma dalla festosa rassegnazione contornata di applausi, di sventolio di bandiere e di cori da stadio, come se si trattasse di un atleta che annuncia trionfante la conclusione della propria carriera agonistica.

La barca di Pietro è nella tempesta più nera. Il Papa annuncia le proprie “dimissioni”. Orde indiavolate di avvoltoi si levano in volo agguerrite come non mai. E l'unico segno di vita proveniente da tanti cattolici è qualche timido belato. Chi ha osato implorarlo di ritirare le “dimissioni” ha ricevuto una pioggia di sinistri insulti, specialmente “fuoco amico”. I cattolici rassegnati, plaudenti e sorridenti come se nulla fosse successo, crogiolantisi in un pietismo provvidenzialistico, nulla hanno avuto da dire sul coro unanime di elogi da parte di quella stampa abituata a fabbricare quotidianamente accuse contro il successore di Pietro. Elogi provenienti naturalmente anche da tante serpi dotate di berretta cardinalizia: “il Papa rompe un tabù”, “si è dimesso dal suo servizio di capo”, “come se avesse detto: 'meglio che me ne vada'”, “ha rotto il tabù della sua inamovibilità”...

Tutta la recentissima “apologetica da social network” mi pare solo un tentativo di non pensare all'evento epocale e sconvolgente. Un tentativo di esibire una parvenza di fedeltà. Un tentativo di non accorgersi della eccezionale gravità della situazione. Un modo per non pensare a folle sobillate dalla stampa che in piazza san Pietro gridano: Dimettiti! Dimettiti! Il Papa ha dovuto parlare di sé stesso e della sua decisione. Ha esordito dicendo “vedo una Chiesa viva!” ma proprio quelle parole riportavano alla mente le tante brucianti sconfitte. Riportavano alla mente la confusione moderna: liturgica, disciplinare, dottrinale.


“In tutto questo disastro chi ama veramente il Papa? Ama il Papa chi è preoccupato della fede. Il successore di Pietro c'è nella Chiesa come custode della fede e dell'unità disciplinare che da essa discende. Allora amare il successore di Pietro, amare il Papa, vuol dire amare il suo compito, cioè il custodire il deposito e il confermare nella fede i fratelli. Amare il Papa fino alle lacrime, vuol dire amare la fede cattolica fino a morire per essa, come i martiri”.

lunedì 11 febbraio 2013

Sempre a ricordare la libertà

Una persona tutta pimpante mi segnala il comunicato di don Carròn sulle “dimissioni” del Papa. Nel leggerlo, ho avvertito tutto il dolore di don Carròn.

A causa della decisione del Papa, da domani -anzi, già da stasera- avrò il poco piacevole onore di distinguere con enorme chiarezza i ciellini imborghesiti da quelli che hanno capito almeno qualcosa del movimento. Vedrò coloro che si riempiono la bocca di paroloni ciellini come “drammaticità” e vedrò i (temo assai meno numerosi) ciellini come me che quando pronunciano la parola drammaticità avvertono una fitta lancinante.

Don Carròn ha ben presente l'imborghesimento di ampi settori del movimento di Comunione e Liberazione. Dove la virtù della speranza viene comodamente trasformata in un sorridente ottimismo. Dove la virtù della carità viene trasformata in un generoso impegno (magari anche fruttuoso, magari anche sincero, ma tutto sommato “impegno” incastonato nella propria agenda ed a cui si dedica più il corpo che l'anima, più i soldi che le virtù teologali). Dove la virtù della fede viene trasformata in imponente e perspicace ripetizione dei “discorsi del movimento” (magari anche comprendendoli un po', ma spendendo cento parole laddove ne basta una: annacquando cioè quello che ci ha davvero svegliati, rimessi in piedi, acceso il fuoco dentro, guariti dallo scandalo dei nostri stessi peccati). Che poi in fondo in fondo sono le stessissime cose che avvengono in tutti gli altri settori della Chiesa.

Ciononostante, proprio il don Carròn stesso deve indicarci la direzione da guardare: la libertà di don Joseph, libertà grandissima perché capace di operare una scelta grandissima (in qualità di Papa, è assai più conscio di me e di te delle difficoltà di essere Papa adesso), una scelta che era stata inimmaginabile da sei secoli. Don Carròn deve ricordare quanto sia necessario -subito, senza sconti- mettere da parte l'entusiasmo umano per capire cosa significhi libertà in quella circostanza e cosa c'entri con la nostra vita.

Don Carròn lo fa perché al di là dei tipici peccatucci dei singoli, al di là delle comodissime sbandate (che qui chiamo “imborghesimento”), il problema principale è ancora capire cosa significhi essere liberi. Uno può sapere a memoria tutta la dottrina della Chiesa, eppure scegliere il “bene minore” rispetto al bene maggiore; uno può aderire a Cristo con tutta la propria volontà, eppure desiderare altro, avvertendo la fede come un peso anziché come una liberazione.

Quando don Giussani ci augurava di non vivere mai tranquilli, ce l'aveva proprio contro l'imborghesimento. Il cui primo comodo frutto è dimenticare la libertà. Ridurla ad un concetto astratto. Esonerarla dal dolore. Renderla una cosa asettica. Il ciellino tutto volantoni, telegiornale, scuola di comunità, telegiornale, banco alimentare, telegiornale, vacanzina, finisce a poco a poco per non capire più cos'è la libertà.