mercoledì 30 maggio 2012

Il lavoro non è una merce

La Chiesa ha sempre insegnato che il lavoro, in quanto prosecuzione dell'opera creatrice del Signore, ha per ciò stesso dignità. Ed ha insistentemente raccomandato, in particolare negli ultimi secoli, la dignità della “mercede agli operai”.

Queste due asserzioni si scontrano frontalmente con la mentalità moderna. Società in cui il lavoro è funzionale alla paga, e la paga è proporzionale a ciò che “richiede” il mercato, ossia -generalmente- la moda del momento. Per questo vediamo mestieri particolarmente stupidi (se non addirittura contrari alla dignità e alla vita) fruttare valanghe di soldi a persone che si ritrovano al posto giusto quando qualche moda lo esige.

L'idea che il lavoro serva solo ad estrarre denaro è spaventosamente gravida di conseguenze. Per esempio, trasforma del tutto il modo di lavorare rendendo gli uomini schiavi del proprio mestiere e schiavisti dei loro eventuali sottoposti. Un po' come nei film di Fantozzi, dove è considerato “vita” tutto ciò che non riguarda il lavoro, dove si entra in ufficio all'ultimo minuto e si esce a razzo appena suona il fine turno.

Quell'idea, poi, trasforma il lavoro in merce, spostabile, ripianificabile, surrogabile o sostituibile, comprabile laddove costa meno. Non mi riferisco solo alla famigerata delocalizzazione (far produrre a cinesi e indiani a un decimo della paga che dovrebbero dare a te). C'è anche il caso tipico in cui da un giorno all'altro ti “ripianificano”, ti “spostano” in altro settore, facendoti lasciare nelle mani di qualcun altro (magari un incompetente, o uno che odia ciò che facevi) tutto quello che avevi messo in piedi, “tanto ti pago, dunque ti sposto ogni volta che qui si decide”.

Se il lavoro non ha la dignità di prosecuzione dell'opera creatrice del Signore, il lavoratore è solo un contenitore di lavoro, da misurare continuamente, riprogrammabile a piacere: tant'è che in ambiente industriale non si parla più di “lavoratore” ma di “risorsa”. Una macchina, di cui magari si può anche tollerare temporaneamente qualche difetto (consuma troppo, mi costa troppo, al primo guasto la butterò via), di cui ci si può sbarazzare anche se sa fare bene il suo mestiere.

Gli uomini sono uguali per dignità, non per capacità. È inevitabile che uomini diversi, anche se aventi lo stesso identico curriculum di studi e di lavoro, diano sul lavoro risultati diversissimi. E le capacità non sono necessariamente legate all'urgenza del momento stabilita dal consiglio di amministrazione. Ma da quando ci si è dimenticati che si lavora per la maggior gloria di Dio, il lavoro è diventato una merce su cui speculare e la dignità è diventata un mero benefit espresso in parametri mondani.