sabato 26 ottobre 2019

Potrei scriverci un libro, sulle quarantenni

Attempate ultraquarantenni il sabato sera vanno alla disco e nel rientrare alle quattro e mezza del mattino si accorgono magari di aver pure smarrito le chiavi di casa. La notizia mi ha colpito prima perché per me disco è solo quello del computer (ci ho messo qualche momento prima di ricordare che avesse un altro significato), e poi perché ancor oggi non riesco a capire la stranezza del radunarsi nei luoghi appositamente creati per spennare soggetti che tentano maldestramente di non notare la propria solitudine e la propria insignificanza.[1] Siamo passati dall'epoca in cui si temevano la solitudine, la noia, la tristezza, la malinconia, all'epoca in cui si tentano di gestire (con risultati inevitabilmente peggiori).

Nel caso di queste mie conoscenti, viene da riflettere su come siamo passati dall'epoca in cui si diventava nonna prima dei quarant'anni[2] all'epoca in cui dopo una vita poco gloriosamente "avventurosa" perfino per gli standard televisivi di serie B,[3] si comincia a temere l'ultimo rintocco del così detto orologio biologico, cioè l'imminenza della naturale cessazione della capacità di procreare: comincia a far capolino la fretta di "fare un figlio" (attorno ai 40 anni), cioè poter vantare sui social di aver "fatto" almeno una cosa concreta nel termine della parte più ricca della propria vita.

Poi magari ti dicono che quella delle chiavi smarrite non è la solita facilona, no, lei sa tenere a bada i maschietti a caccia delle solite cose (e che disperatamente tentano di farsi notare cliccando Mi Piace su ogni stupidaggine dei suoi show su Instagram/Facebook), lei sa gestirsi il proprio sabato sera: una volta ha fatto una gita (solitaria) in un paesetto ameno sul mare a duecento chilometri di distanza,[4] un'altra volta ha guardato un film francese del 2001, un'altra volta è andata in parrocchia per l'incontro catechetico con annesso momento di agape[5] (altrimenti non ci sarebbe andato nessuno)… Come se la vita fosse solo quella fuori del proprio orario di lavoro, e il momento culminante fosse il sacro Sabato Sera.

Un'attempata bionda, in treno, al telefonino dava consigli ad un'amica o parente: "se ti piace farlo allora non te ne devi vergognare". Lo diceva quasi a bassa voce, come se provasse vergogna a dirlo. Ma se è vergognoso allora perché consigliarlo?[6]

Un'altra attempata bionda, sempre over 40, con occhiali da sole anche al coperto (per non far notare zampe di gallina e occhiaie), abitino attillato e marito panciuto al fianco, mi introduceva al set dove di lì a poco ci sarebbe stato il Servizio Fotografico. Oggetto del sontuoso Servizio era una magrissima signorina in costume da bagno, debitamente dipinta ("si dice truccata!") di giallo e rosa dal collo in giù, alla quale non avrei dato più di tredici o quattordici anni ("macché bambina! è maggiorenne!") che si metteva in posa con uno sguardo torvo e sprezzante ("è perché ci sa fare!"). Uno stuolo di fotografi - tali solo per aver bruciato tre/quattromila euro per fotocamera e ottiche - si affannava a scattare senza sosta. L'occhialuta sorride con malizia e mi dice: "volete rimanere? tra poco a porte chiuse c'è la lingerie". Mi sento un po' un alieno che fatica a capire queste terrestri, così combattive contro la mercificazione della donna, così pungenti e fiscali contro gli sguardi dei mariti, e che però in occasioni a loro modo religiose come quel Servizio sono pronte a mettere da parte la morale e il buonsenso.

Ed un'altra attempata signora, ugualmente over 40, anche lei autotitolatasi fotografa, scattava foto alla "maggiorenne" discinta: "ora una posa più sècsi, su!" Ha fretta di incamerare qualche centinaio di pose risqué[7] da portare al suo capo, che avrà sempre e comunque da ridire. "Ma tanto se non lo faccio io, lo farà qualcun altro", si sarà detta qualche volta tra sé e sé per giustificarsi. Il capo del giornalucolo locale ti manda alla fiera dell'elettronica "ma c'è anche un set con una modella in lingerie, e i lettori…" Sottinteso: i lettori vogliono vedere un po' di prosciutti umani, non portarmi solo foto di gente annoiata in mezzo a chincaglierie cinesi.


1) Ci sarebbe anche la componente del "trasgredire", andata scemando drasticamente perché il nuovo perbenismo in vigore consente in pubblico e sui social ciò che un paio di generazioni fa era possibile solo nella disco. Per essere trasgressivi, per sfidare il mondo e suscitare riprovazione, bisogna farsi beffe del perbenismo in voga oggi, bisogna gettare nel Tevere gli intoccabili totem di oggi. Non a caso le disco storiche vanno chiudendo una a una per mancanza di mercato.

2) Una società più povera della nostra, appena uscita da una inutile guerra, ai tempi in cui si dormiva anche su sedie accostate e si viveva in quattro in un monolocale di venti metri quadrati, aveva molta più speranza nel "futuro", nessuno spavento di fronte al termine "famiglia numerosa", e una assai minor pressione burocratica/fiscale. Bonus aggiuntivo: vedere i figli dei propri figli mentre si era ancora nel pieno delle proprie forze dava ulteriore speranza.

3) Il picco è tuttora il sacro Erasmus, che stando alle lamentele più comuni è il luogo dove gli innamoramenti in corso terminano, e la donzella partita modesta ritorna troiona d'avanzata carriera. Ma è sempre stato noto che il fare esperienze all'estero per un'adolescente (anche solo mentalmente tale) è sinonimo di assaggiare la libertà (in senso libertino).

4) Dopo aver manifestato per una vita intera l'odio per la solitudine, vanno a fare una vacanzina ufficialmente di "solitudine", e guai a te se traduci in italiano quei chiari sottintesi che tentano insistentemente di trasmettere. Un neo-moralismo idiota e cervellotico.

5) Nella Chiesa post-conciliare scarseggiano le vocazioni perché i chiamati al sacerdozio sono più numerosi dei chiamati all'animazione turistica, per cui nelle parrocchie trasformate in luogo di intrattenimento (dove ti adescano con l'agape per poi infliggerti una sciapa predica sulla pace e sull'accoglienza) ovviamente i preti scarseggiano e sono sempre più insipidi.

6) Fra troione ci si giustifica volentieri a vicenda: è un meccanismo "educativo", a suo modo, verso l'irresponsabilità così tanto promossa dai media. Una scena del genere è possibile solo tra donne. Quand'anche tra uomini ci si parla con complicità, interviene sempre istintivamente quel senso di cameratismo che ti mette in guardia, anche se sotto forma di goliardata compiacente. Quella stessa espressione "se ti piace farlo…", se pronunciata tra uomini, a causa del naturale cameratismo suonerebbe come un lavarsene le mani, cioè come un atto d'accusa.

7) Quando ti rifilano continuamente paroloni stranieri significa che la traduzione in italiano rende troppo bene l'idea.

domenica 20 ottobre 2019

Salmista in salmì

Forse il massimo segno della crisi della Chiesa è quell'aver ridotto la liturgia ad una recita da palcoscenico (in cui peraltro non si ha alcuna voglia di seguire il "copione", cioè i libri liturgici).

Un tale mi si avvicina e con un sorriso idiota mi chiede: «vuoi fare il salmista?»

In quel momento corrono nella mia mente le immagini dei salami, del coniglio in salmì e di altri salumi e salamelecchi. Poi, d'un tratto, il mio intuito brucia tutte le scorte di caffeina rimaste nell'organismo e così, con la faccia più onesta possibile e sommamente sforzandomi di non ridere né proferire turpiloquio, retoricamente gli chiedo: «ehm… cosa?»

Il suo sorrisetto si fa ancora più idiota: «il salmista! oppure la preghiera dei fedeli! ognuno deve fare qualcosa, su!»

Devo aver assunto una faccia da pesce lesso ma per mia somma fortuna uno degli autoimpegnati più volenterosi della parrocchia emerge dal nulla e, più lesto di un vigile urbano che vede la tua auto in quarta fila, grida: «faccio io il salmista!» I due cominciano a battibeccare quel tanto che basta da dileguarmi come un'anguilla accortasi di essere in ritardo.

Partecipare alla Messa è diventata un'arte complessa. La liturgia cattolica, sublime e maestosa, si è quasi ovunque trasformata in un cerimoniale autogestito da buontemponi, con una fittissima selva di regole non scritte.

Ma… cos'è in realtà la liturgia? e perché si è ridotta a questo punto?

Ad entrambe le domande si può rispondere con le parole di Gesù stesso: «fate questo in memoria di Me».

Gesù ha detto queste cose ai suoi apostoli. Ha dato loro non solo l'esclusiva del "fare questo" (munus sacerdotale) ma ha implicitamente garantito che non serve una platea di spettatori-protagonisti. Infatti la Messa è ugualmente valida sia che il sacerdote la celebri con il popolo, sia da solo, sia concelebrando senza popolo, sia col popolo.

Quindi il problema di "cosa far fare al popolo per far riuscire meglio la Messa" è fondato su un equivoco, su un'invenzione di qualche ignorante annoiato. Hanno confuso la "partecipazione" («far parte di») con il "partecipare" («prendere parte a»), cioè hanno confuso l'unirsi spiritualmente al Sacrificio dell'altare… con il fare qualcosa.

Il Messale non è altro che una lista di istruzioni, la descrizione della best practice per fare «questo in memoria di Me». È un librone voluminoso, perché ci sono anche cose facoltative, cose consigliate, cose alternative: non è un software. Ma per qualche misterioso motivo, i preti oggi evitano di seguirlo, prendendosi molta più "libertà" della tanta che già ne concede.

Sembra insomma che i sacerdoti abbiano dimenticato la semplicità del «fate questo» per convincersi che la Messa sia una messinscena, uno spettacolino televisivo, come quei quiz a premi che prevedono la "partecipazione" del pubblico in sala: non a caso, le festicciole parrocchiali prevedono l'imbarazzante obbligo di essere "tutti protagonisti", come se l'urgenza fosse di massimizzare la quantità di parole pronunciate, come se la riuscita fosse proporzionale alla frenesia e alle rumorose risate, come se il successo fosse misurabile col numero di persone che si sono scatenate. Come se l'entusiasmo e l'allegria fossero "partecipazione", come se fossero programmabili.