martedì 10 settembre 2013

Festa di piazza in paese

Festicciola in piazza, con complessino che strimpella vecchie insulse canzonette e urla nei microfoni. Amplificazione degna di miglior causa, con bassi che rimbombano nello stomaco. Gran folla di persone ad assistere all'autoesibizione retribuita delle star sul palco. Ragazzetti che chiassano per le stradine, tra minacce, grasse risate, battute stupidissime. Gente che esibisce il vestito nuovo, la moto liturgicamente ripulita per l'occasione, sguardi che fuggono senza meta, anziani che ciondolano tra le bancarelle ripetendosi con fervore le stesse piccinerie di tutti i giorni.

Io invece sono a casa: durante e dopo la cena mi tocca sorbire il fracasso accuratamente amplificato. I lorsignori sul palco sono ben rappresentati da quella vignetta con le note musicali obese e ammaccate e le scritte “zum zam bam bum” che martellano le orecchie di Paperino. La distanza e l'amplificazione mi fanno giungere il frastuono già scremato alle basse frequenze, cosa che mi permette di distinguere con maggior chiarezza la spiritualità tribale di quella liturgia.

Fin da piccolo ho percepito l'aria liturgica di tali organizzatissime gazzarre paesane,[1] paragonandola all'attenzione e alla preparazione che meriterebbero invece le celebrazioni dei sacramenti. La tecnologia contenuta negli strumenti di amplificazione permette alle masse di lasciar affondare le loro anime nel rumore, laddove la Chiesa le elevava col silenzio, con l'arte sacra e con quelle distese di canto gregoriano.[2] Da piccolo mi imbarazzava vedere che quello stesso popolo cattolico avvertiva il bisogno di equilibrare la sublimità della liturgia con le celebrazioni tribali in piazza (magari proprio la stessa piazza dove sorge la chiesa in cui poco prima ci si comunicava con devozione).

Era imbarazzante, di domenica, pranzare dagli zii col televisore acceso che vomitava allusioni volgari, ciniche insinuazioni e perfidi luoghi comuni, proprio un'ora dopo aver tutti consegnato al Santissimo Sacramento una quantità di buoni propositi. Un milione di volte ho desiderato insorgere e sgridarli: ma un attimo fa non eravate in ginocchio davanti al Redentore? La comunione con Lui è già da dimenticare? Ma avevo paura di sentirmi dire: ma dai, per così poco? ma dai, non ti sembra di esagerare? ma dai...

Ma avevo ancor più paura che alzassero ulteriormente il volume. Sembravo l'unico che non sentisse il religioso bisogno di fracasso e trivialità, mi pareva di non aver posto nello stomaco per quei “bum bam bum”, quelle sconcezze e banalità seguite da applausi tutti uguali. E quelle rare volte che il parroco ci concesse la sua presenza a pranzo, sembrava sentirsi perfettamente a suo agio con loro e col televisore acceso, e forse proprio per questo era così tremendamente noioso nelle omelie e aveva tanto rispetto per quel gruppo di oche litigiose che ogni santa domenica e festività comandata gli starnazzava nella liturgia le solite trite canzonette anni settanta.

Non so dire come e quando mi fu concessa la grazia di stancarmi definitivamente di quella “spiritualità” mondana, oltre che la grazia di capire che da qualche parte doveva esserci una cristianità meno televisionata e più scossa dal Mistero. Nel frattempo mi sforzai di imparare a lasciar passare da un orecchio all'altro, senza transitare per il cervello, tutto quel frastuono, ardua impresa anche se ne ero stato sempre allergico.

Nell'incontrare il movimento di Comunione e Liberazione, la prima cosa che mi colpì fu proprio la liturgia. Silenzio e ordine, sublimità e chiarezza, partecipazione senza protagonismo. Tutti inginocchiati alla consacrazione (scena mai vista in parrocchia), nessuno che spalancava le braccia e le mani come un cretino al pater noster, nessun protagonismo, nessuna scenografia da Zecchino d'oro, nessun ridicolo cartellone coi caratteri cicciotti, nessun “gesto” imbarazzante, niente: solo una compostezza veramente liturgica, come se tutti fossero lì riconoscendo Cristo presente nel Santissimo Sacramento.

La cattiva interpretazione della presenza di Cristo “in mezzo a noi” è all'origine della trasformazione della liturgia cattolica in un attivistico cerimoniale, dove la “partecipazione” è confusa col darsi da fare, dove quell'in-mezzo-a-noi ha ridotto Cristo ad una sensazione di ottimismo. Ne ho avuto un ampio assaggio quando il celebrante mi sgridò perché stavo in ginocchio, postura che lui aveva interpretato come un “non partecipare”.[3] Inginocchiarsi, infatti, non è un gesto da sagra paesana, non è un gesto da trasmissione televisiva di intrattenimento della domenica pomeriggio. Ci si può inginocchiare compunti davanti al Signore, fisicamente davanti al Signore, non certo nell'assemblea sedicente “cristiana” impegnata a “celebrare”, dove la “sacra sinassi” fa il “banchetto escatologico” in un “clima di festa”... e guai a chi non canta, guai a chi non esibisce un moto di “festa”:[4] non sembrerebbe più un varieté pomeridiano domenicale.


1) Avevo goffamente tentato di partecipare talvolta a quelle celebrazioni, anche obbedendo al loro primo comandamento (quello di sospendere la ragione), ma il dogma del “stasera faremo pazzie” non mi ha mai riempito minimamente il cuore. Forse perché so che dopo ogni “stasera” c'è sempre uno “stanotte” ed uno “stamattina”.

2) Il boom delle canzonette “per la liturgia” nasce mezzo secolo fa come risultato della malsana idea che il popolo debba dare il suo attivo contributo allo spettacolino religioso autogestito. Non più il lasciarsi inondare l'anima, ma il darsi da fare per far sembrare “riuscito” lo spettacolino (cfr. ad esempio quel parroco che ha cambiato arbitrariamente la formula finale in: «la messa è finita: andate in pace dopo il canto»).

3) Il maggior numero di sgridate che ho collezionato dai preti riguarda il canto. Mi ripugna cantare certe emerite scemenze. Detesto aggiungere alla liturgia la mia voce per recitare insipidi minestroni di religiosità pseudocattolica. E dopo la prima e la seconda volta che sono stato beccato in flagrante reato di bocca chiusa, quel prete ha sempre guardato nella mia direzione tutte le volte che ammoniva: “cantiamo tutti insieme, su! tutti insieme”.

4) Dal film Buck Rogers: “Il re Ming ordina a tutti di essere felici. PENA LA MORTE”.

lunedì 2 settembre 2013

Un privilegio, una croce, una grazia

Perché si implementa un “convento” o un “monastero”? Per semplificare la vita a coloro che perseguono un grande ideale.

Tanti cattolici - perfino di vita religiosa o monastica - hanno dimenticato o addirittura sempre ignorato il vero motivo per cui esistono conventi (e monasteri e istituti religiosi e tutto il resto). È puro orgoglio voler realizzare da soli la propria vita spirituale: si finisce inevitabilmente per sbandare. La necessità di una “compagnia” dove essere guidati e dove aiutarsi a vicenda ha fatto sorgere le “case” religiose. Dove le esigenze comuni vengano risolte senza richiedere ad ognuno troppe risorse dove la vita di preghiera e di sacramenti sia ordinata, senza subire rallentamenti, svolte o accelerazioni a seconda di capricci e ispirazioni passeggere. Per chi desidera consacrarsi seriamente a Cristo,[1] un buon “convento” è la via più comoda e meno rischiosa. Persino l'avere una “regola” ed un “superiore” a cui ubbidire sono un vantaggio: significa liberarsi di un gran numero di responsabilità e di scelte difficili.

Uno normalmente fa presto a dire “vedrò, saprò, resisterò”: ma una qualsiasi tempesta improvvisa può affondare la nave anche dopo decenni di perfetta navigazione. Una “compagnia” guidata è lo strumento che facilita una sfida altrimenti impossibile.[2] Il “convento” dove tutti perseguono il tuo stesso ideale - nonostante le tue e loro debolezze - è quanto di meglio tu possa desiderare per vivere fino in fondo la vocazione, vocazione che è assai più grande di quanto tu stesso non possa immaginare nei momenti di maggiore entusiasmo.

Don Giussani ha compreso tutto questo in tempi lontani. Mentre il mondo - perfino quello cattolico - si dava da fare per “ribellarsi”, “rinnovare”, “rivoluzionare”,[3] il don Giuss ha in qualche modo estratto l'essenza della vita religiosa. Chi conosce bene i Memores Domini non può non pensare che abbiano una dimora che realizza efficacemente l'ideale di “convento” sopra descritto.

Dimora non significa banalmente una struttura dove “fare vita comune”. Quest'ultimo odioso termine è figlio della mentalità moderna per cui la “vita” è qualcosa che si “fa”, il vivere è una lista di compiti da svolgere, ossia la vocazione sarebbe un mestiere, un elenco di regole. Dimora: uno strumento utile per accoglierti, aiutarti, sostenerti, riportarti in piedi quando cadi. Qualcosa che dunque in fin dei conti ti libera dai fardelli peggiori: il tentare di “capire” da solo, il tentare di “fare” da solo, il tentare di “vagliarsi” da solo...

Ai tempi in cui don Giussani era un ragazzino si diceva che entrare in un ordine religioso era un “privilegio”, rimanerci “una croce”, morirci “una grazia”. Una “grazia” perché significava l'aver combattuto fino alla fine la buona battaglia. Una “croce” perché nessuno strumento esime dalla necessità di lottare contro le proprie cattive inclinazioni.[4] Un “privilegio” perché si badava alla qualità piuttosto che alla quantità.

Che i tempi siano tanto, tanto cambiati lo si nota dalle disperanti “pastorali vocazionali” (diocesane e religiose) che descrivono il consacrarsi come un “fare”, come un'etichettina elegante di specialisti della preghiera, biglietto da visita di professionisti di cose chiesastiche, insomma, sempre un “fare”, un'attività, un mestiere, fosse anche solo il mestiere di essere “qualcosa”. Mestiere che viene chiamato pomposamente “carisma specifico”. Non propongono una dimora perché ormai non c'è più una dimora ma solo un'organizzazione: i “conventi” di oggi non attraggono più, e mentre prima avevano il problema delle troppe richieste, oggi hanno il problema delle troppe poche richieste.[5]

Nelle “pastorali vocazionali” non c'è più una compagnia: c'è invece una struttura con mille possibilità. Come se fosse un club o un partito a caccia di aderenti. Una sorta di accattonaggio di vocazioni che arriva spesso al grottesco: penso per esempio a certi ordini femminili che si affannano a rastrellare giovani africane e asiatiche[6].

Non riesco a vedere oggi negli ordini religiosi tradizionali (e nemmeno in quelli di recentissimo allestimento)[7] qualcosa che somigli almeno vagamente a ciò che don Giussani chiama dimora e che anima la vita dei frutti del movimento di CL (Memores, Cascinazza, San Carlo...) Sembra che solo i religiosi più anziani abbiano ancora memoria di ciò che era la vita consacrata prima della grande deriva del dopoguerra (che ha “fatto il botto” nel '68 e continua ancor oggi).


1) Il consacrarsi a Cristo può avere diverse forme (monaco, suora, prete...) che purtroppo nella parlata comune vengono erroneamente intese come mestieri. “Fare il prete” (piuttosto che “esserlo”), “fare il monaco contemplativo” (inteso come emettitore di preghiere), “farsi suora” (percepito come il farsi assumere in un'aziendina a conduzione femminile), eccetera: la riduzione tutta moderna della vocazione ad una “funzione”, un mestiere, un darsi da fare in nome della produzione di qualcosa che suoni “utile”.

2) Non mi risulta di santi eremiti recenti.

3) In coincidenza col Concilio Vaticano II si è assistito allo svuotamento di conventi, all'abbandono della veste talare e dell'abito religioso, si è fatta strada la mondanizzazione e la ridicolizzazione della vocazione: “il nostro carisma è l'ospitalità”, mi diceva qualche giorno fa l'anziana suora tarchiata che gestiva la “casa di spiritualità”, cioè un alberghetto con cappella. Quelle suore si sono a poco a poco trasformate in cameriere e sguattere stipendiate e con qualche momento accessorio di preghiera comune. La presenza della cappella in tali alberghetti (generalmente arredata con pessimo gusto) è solo uno dei vari servizi per la clientela. La loro “testimonianza” cristiana è ridotta al più a qualche quadretto religiosetto appeso al muro e ad un abito “religioso” che ricorda più un grembiule da vecchia badante che la divisa della consacrata.

4) Una mela guasta rovina l'intero cesto. Tanto più se la mela guasta è il “superiore” della casa religiosa: cedendo alle proprie cattive inclinazioni, o anche solo scendendo a compromessi, può devastare in poco tempo l'intera comunità.

5) Il peggior biglietto da visita di una comunità religiosa è solitamente il suo manifestino di pastorale vocazionale: vi si notino il font di caratteri utilizzato, il disegnino illustrativo, i colori utilizzati e la banalità del titolo che vuole a tutti i costi apparire simpaticamente controcorrente.

6) Il talent-scouting delle vocazioni femminili extracomunitarie si basa su un versetto da “quinto evangelo” del commendator Migliavacca: “seguitemi! vi darò un tetto e un piatto caldo”. Certe congregazioni femminili, fino a non troppi anni fa rigogliose di preghiera, testimonianza e vocazioni, si sono ridotte a piccola imprenditoria alberghiera a disposizione di gruppetti di cattolici imborghesiti. Anziché lasciar morire serenamente di vecchiaia la propria congregazione la eutanasizzano sotto forma di “casa di spiritualità”, per di più con una certa fretta perché alla loro età hanno bisogno di badanti e cuoche.

7) Il generale degrado della vita religiosa si nota in particolare quando i diretti interessati parlano del proprio “carisma”: hanno la stessa faccia e la stessa cadenza del dirigente che parla della “nicchia di mercato” su cui è specializzata la sua azienda.

domenica 1 settembre 2013

Come se fossero stati forgiati dalle verità della fede

Qualche tempo fa mi è capitato di assistere ad una conversazione tra alcuni Pezzi Grossi di una Grande Azienda italiana. Non so se per effetto del buon vinello in tavola o per reale convinzione, avevano una sincera nostalgia dei Bei Tempi Andati, di quando gli uomini erano uomini e amavano il proprio lavoro oltre che saperlo far bene.

Nel loro raccontare, episodi di quotidiano eroismo si susseguivano con precisi nomi, date e luoghi. Di quando quegli operai, che neanche sapevano scrivere il proprio nome, subito dopo un terribile nubifragio rimisero in funzione seimila cavi di collegamenti in tre ore. Di quando in autostrada durante una piovosa alba l'autista anziché frenare azzardò un sorpasso veloce evitando così di coinvolgere l'autobus carico di sonnecchianti operai in un pericoloso tamponamento. Di quando la suddivisione territoriale lasciava una tale autonomia, che gli “armadi” in ghisa con le apparecchiature erano ficcati ovunque, e nei paesetti persino nelle cantine delle case private, e riuscivano a far funzionare tutto senza elaborare complicate strategie di backup e disaster recovery. Di quando un semplice operaio trovatosi per caso davanti ad un'emergenza seppe velocemente manovrare con sangue freddo e perizia evitando un incendio e altri costosi danni, venne ricompensato solo con una lettera di encomio e non fece una piega.

Nei bei tempi andati c'erano sì pigri e furbetti, ma la mentalità più diffusa, dal vertice più alto fino all'ultimo degli operai, comprendeva la fierezza del far bene il proprio mestiere e un solido senso di lealtà verso l'azienda. I Pezzi Grossi, nel susseguirsi dei loro ricordi, aggiungevano dettagli e date per far capire che non stavano gonfiando i fatti, e con ciò sembravano quasi domandarsi da cosa fossero nate quelle virtù oggi praticamente scomparse.

Per un attimo mi è parso che uno di loro stesse deducendo davvero l'unica esatta spiegazione. Che non c'entra con le vicende politiche ed economiche del dopoguerra, né col benessere percepito o desiderato, né con un presunto attaccamento alle virili virtù così come venivano celebrate dalla retorica fascista. C'entra invece con la percezione della dignità del proprio lavoro, del lavoro come proseguimento dell'opera creatrice di Dio, dell'espressione di una positività, di un desiderio. Il dirigente aveva infatti detto che quegli uomini sembravano aver chiaro il senso delle cose e la preziosità della propria opera, «come se qualcuno li avesse tutti educati a ciò fin da bambini».