domenica 29 luglio 2018

Riaccadere della scontatezza

È dalla notte dei tempi[1] che ogni incontro del movimento viene introdotto da qualche canto, da una preghiera, e dalla messa in guardia contro il viverlo con una sorta di scontatezza. In altre parole, contro la riduzione del movimento ad una serie di contenuti, ossia un discorso preconfezionato. Quella dev'essere proprio la tentazione interna che ha accompagnato il movimento fin dagli inizi. Era naturale che le persone ostili al movimento tentassero di inscatolarne i contenuti,[2] poiché dispiaceva loro profondamente che il riproporre delle elementari verità di fede avesse come conseguenza il far nascere un popolo. Ed in fondo in fondo era ovvio anche che i tipici ciellini imborghesiti e dalla pancia piena amassero strologare lambiccandosi lungamente in complesse e fumose spiegazioni di questioni chiare e semplici.

Al termine scontatezza, in quelle introduzioni, segue immancabilmente il termine riaccadere: nobile scopo, quello di connettere il motivo per cui volontariamente abbiamo scelto, chiesto, faticato, sofferto per essere anche lì, con la nostra stessa presenza fisica lì. Ma può funzionare solo per chi riconosce degli amici - in senso pieno, in senso di guida, poiché l'obbedienza è una forma di amicizia, e avvertire l'urgenza di ubbidire ad uno significa già seguirlo e averlo seguìto, significa considerarlo più di un vero grande amico, da tempo, cioè significa che c'è una storia.[3]

Perciò, nel dolore di accorgersi di qualcosa che incrina le fondamenta di quella storia, di quel riaccadere,[4] uno si rende conto di essere andato all'assemblea o alla ripresa di scuola di comunità per mero doverismo. Sì, magari anche per la sete di scoprire nuovi motivi per guardare avanti, ma quella del percepirsi come strumenti utilizzati per un'agenda che non ci interessa è una ferita che difficilmente si rimargina, è una domanda straziante sul "cosa sono venuto a fare qui".[5] L'ubbidienza è sì una forma di amicizia, ma esige inequivocabilmente che tale amicizia sia vissuta anche dall'altra parte. Puoi essere ignorato e messo ai margini per una vita intera e ancora legittimamente provare un senso di profonda gratitudine e un desiderio di ubbidienza che non viene scalfito neppure dai momentacci e dagli scandali. Ma quando scopri che per il soggetto che avevi sempre desiderato seguire sei stato non più che una delle tante anonime pedine su una scacchiera - cioè che la tanto pubblicizzata paternità non c'era mai stata -, la tua vita inevitabilmente cambia.[6]

Ricordo in un numero di Tracce un universitario che raccontava di avere una grandissima stima per un suo docente, un uomo serio, di scienza, un padre... al punto da imitarne il modo di vestire, di parlare, addirittura far proprio un suo tic. Lo invita alla scuola di comunità e dà il massimo di sé, desiderando condividere quel tesoro con lui. Invece il prof, stufo, commenta seccamente: mah, tutte cose già sentite. Va via senza aggiungere altro. L'universitario, addolorato e sconfitto, riassume: in quel momento ho perso un amico e ho perso un tic. Ecco, per me è stato lo stesso. Ho perso un amico, a cui fino a quel momento era stato un piacere ubbidire, e ho perso un tic - il tic del portafoglio, quello di svenarmi senza sosta per qualsiasi opera connessa al movimento.

La mia vita è cambiata lì, nei momenti in cui mi sono sentito una pedina intesa solo a gonfiare qualche statistica e nei momenti in cui dei cari amici sono stati ingiustamente calpestati da quello che in teoria era il nostro comune migliore amico.[7] Ciò che fino ad allora avevo ritenuto un errore di metodo - il distinguere tra la vera eredità di don Giussani e il movimento così com'è oggi - mi si è improvvisamente rivelato fondato e ragionevole. Nulla ha intaccato quel che ho vissuto in precedenza attraverso il movimento (cioè attraverso persone concrete e situazioni concrete), ma non riesco più a togliermi dagli occhi e dalle orecchie ciò che è stato drammaticamente spiacevole vedere e sentire. In queste stesse pagine prendevo in giro, fino a pochi anni fa, coloro che accusavano lo stesso problema: alla fine mi sono riscoperto a condividere ciò che dicevano e proprio a causa di quei mali che avevo io stesso diagnosticato - la sempre più massiccia presenza di "cielloti" imborghesiti iperattivi e "giussanologi" altrettanto imborghesiti.[8] Imborghesiti, cioè non solo estranei ad ogni persecuzione, ma addirittura applauditi nei consessi parrocchiali e diocesani, segno evidente di normalizzazione ben riuscita.[9]

Quando dunque in assemblea l'introduzione comincia col respingere ufficialmente la "scontatezza", dentro di me li sfido a dimostrarmi che fanno sul serio; quando in pompa magna proclamano un "riaccadere", dentro di me chiedo loro buone ragioni per l'uso di quel verbo,[10] quelle buone ragioni per cui un gruppetto di Fraternità nasce spontaneamente, non per meri motivi organizzativi o volontaristici, nasce per necessità vitale, non per passatempo religioso, nasce come una sequela, un'obbedienza, non per mettere nel proprio medagliere mentale un'altra decorazione. E dunque, di fronte a quella che considero una contraddizione non accidentale, quella del grande amico che calpesta i miei grandi amici, quella fastidiosa percezione di trovarmi di fronte a prediche preconfezionate introdotte meccanicamente coi termini "scontatezza" e "riaccadere", a lungo andare finisco anch'io per considerare gli incontri del movimento come qualcosa a cui partecipare "solo se ho tempo", avvicinandomi al diventare il tipico ciellino non praticante finché l'attuale gran capo non verrà sostituito da qualcuno che davvero ha a cuore la mia felicità. Ho bisogno che quel "riaccadere" sia molto più che uno dei classici paroloni del gergo ciellino. Ho bisogno di ritrovarmi sorpreso come negli anni passati, quando potevo ragionevolmente dirmi "non era affatto scontato", al punto da non resistere al volerne mettere a parte parenti, amici e colleghi e persino il parroco, pur sapendolo ostile a prescindere.[11]

È con un pizzico di diffidenza e di sfida che incrocio i volti di coloro che pensavo condividessero con me qualcosa di grande. Se prima tentavo di giustificarli pensandoli incapaci di esprimersi o di andare più in profondità, ora li noto come appartenenti ad un club perfettamente vaccinati contro gli ideali ufficiali del club stesso. Se prima potevo parlare di cielloti e giussanologi riuscendo ad associare a quelle due categorie volti tutto sommato lontani, ora, nello struggimento, non posso più ignorare che il movimento che ho incontrato è stato minato da giussanologi dei piani alti. È come uno che dopo la prova evidente del "tradimento della moglie", anche perdonandola di tutto cuore non riesce più a cancellarsi dalla testa l'idea che "non doveva" farlo e che in futuro potrebbe farlo "di più".[12] Ci vuole una vita intera per guadagnarsi una reputazione, ci vuole un attimo per distruggerla. Quando il gruppo di Fraternità scade nel formalismo, quando diventa stancante, non vale più la pena seguirlo - e gli alti richiami allo sforzarsi cominciano a puzzare di moralismo e di doverismo. Don Giussani ci ha insegnato che se la scuola di comunità non ti cambia è inutile. E un ammasso di eleganti discorsi non ti cambia.[13]


1) Odio scrivere tanto - dopotutto nessuno gradisce leggere pagine più lunghe di due o tre paragrafi - ma certe affermazioni inusuali richiedono spiegazioni inusualmente lunghe. La pigrizia mentale di chi legge non può essere sconfitta, ma può almeno trovare qualche riga più giù quel paio di precisazioni necessarie a comprendere più esattamente le ragioni e il contesto. In questa pagina intendo spiegare come è stata scalfita la mia affezione al movimento di oggi (che non somiglia più a quello di ieri) e perché non si tratta di una lamentela dettata da qualche altro tipo di disagio. Vaste programme, per dirla alla De Gaulle. Per cui, come nelle precedenti e future pagine, proverò a indurre il lettore a mettersi nei miei panni.

2) Tutti gli ecclesiastici che invitiamo a presiedere, pateticamente infilano qualche espressione di don Giussani nelle loro noiose omelie per pepare il discorsino e calamitare automaticamente un po' di plauso.

3) La mia storia, i miei amici, la loro fede, tutto convergeva. Ci era facile e addirittura percepito come indispensabile il riconoscere l'appartenenza al movimento. Avevamo un criterio, un metodo, avevamo un padre, avevamo qualcuno che con tutti i suoi possibili limiti (dei quali non ce ne importava pressoché nulla) era lì a capo e a vivere le nostre stesse urgenze. Avevamo una dimora ed era quantomeno un piacere spendersi senza sosta per sostenerla. La cosa peggiore che ci potesse accadere, l'inimmaginabile sventura, sarebbe stata lo scoprire che quella non era più la nostra dimora ma solo un contenitore.

4) Ci siamo sempre detti di aver incontrato Cristo attraverso il movimento, attraverso volti concreti. Cosa che resta vera anche se qualcuno se ne andasse poi per una diversa strada, dopo essere stato più o meno involontariamente strumento di grazia in una storia molto più grande di quel che ha mai potuto immaginare. Ma quando qualcuno di quei volti concreti viene calpestato da capi e capetti del movimento, qualche domanda uno se la pone. E se pure novantanove volte su cento capi e capetti avevano ragione, quell'un per cento di casi ti ricorda che la loro autorità non è affatto infallibile. Cioè che l'esser capo non significa esser santo - significa solo essere uno dei tanti strumenti che, spesso loro malgrado o a loro insaputa, possono essere eco di Cristo. Cioè che nel momento in cui ti dicono di metterti in gioco, hanno il dovere di essere loro stessi a mettersi in gioco per primi più di quanto non stiano già chiedendo a te. Altrimenti l'autorità degrada in autoritarismo, le indicazioni di ubbidienza diventano un ricatto morale sotto mentite spoglie, la tua appartenenza viene misurata in quanto tempo e soldi davi prima e dai oggi... e cominci a dubitare che loro appartengano a quel movimento in cui imbattendoti hai scoperto Cristo. Quando la loro foga è nel blaterare astruserie tipo "non bisogna Occupare Spazi ma Avviare Processi" per sembrare papisti, o "Grandi Cambiamenti Radicali Senza Precedenti" come un Ciotti qualsiasi, qualche dubbio ti viene. Quando la fedeltà a Pietro comincia ad avere l'aspetto di un'adulazione, quando il fondo comune viene nominato come se fosse una tassa di appartenenza, quando i tuoi amici vengono calpestati, cominci a chiederti sul serio dove è andato a nascondersi quel movimento che ha costruito la tua fede.

5) I nobiluomini del movimento hanno spesso come unica risposta quella più evasiva: "continua a venire, verifica tu stesso, chiediti cosa ti sta dicendo Cristo con tutto questo". Cioè per pigrizia non mettono in campo il tesoro che proclamano di avere, scaricando sull'accusato l'onere della prova (non diversamente da un kapò del Gulag che ti rimprovera di non saper lavorare). E guai a farlo notare loro.

6) Quando il capocasa è un emerito coglione, tu offri a Gesù, preghi, sopporti, pazienti, offri, offri, offri, ma per quanto puoi sforzarti di offrire e per quanto ti sforzi di "pensare positivo", prima o poi il vaso si riempie e arriva la goccia che lo fa traboccare (dopotutto i miracoli non sono mai automaticamente garantiti). E quindi quando nelle statistiche dicono che uno "ha lasciato la casa", c'è una buona probabilità che il problema non riguardi la sua vocazione ma solo la coglionaggine del capocasa che ha dimenticato (o forse mai saputo) che l'ubbidienza non è una dinamica unidirezionale. Sto parlando di coglionaggine reale, non immaginaria, non "reinterpretabile" - e che non è certo inviata da Dio. È uno squallido moralismo, a quel punto, rinfacciare al poveraccio: "devi fare un cammino, devi sforzarti di capire, devi mettere il Mistero davanti a questa tua fatica, devi, devi, devi..." Quel che doveva capire l'ha già capito (al punto che è traboccato il vaso), e ad uno con l'emicrania serve un'aspirina, non un discorsino sul capire l'emicrania per metterla "davanti al Mistero" (in nome della santa carità cristiana, per l'emicrania serve una cazzo di aspirina, non l'ennesima predica del cazzo). Ora, questa stessa dinamica del padre che rinuncia ad essere tale perché ha una diversa agenda, immaginatela in qualsiasi altro contesto - nel grande come nel piccolo, ecclesiale o laico.

7) Un'obbedienza sgradita o un colpo di freni a qualcosa che era buono non cambiano il contesto che don Giussani definiva dicendo che chi non ubbidisce sta comunque togliendo qualcosa dal rapporto. Ma quel contesto presumeva che in ultima analisi chi "comanda" non ha trasformato in pedina chi "obbedisce", cioè non ha declassato quell'amicizia ad un privilegio da aristocratico alla corte del re Sole. Disporre dell'ubbidienza di altri è una responsabilità enorme: basta dimenticarlo per un attimo per provocare danni irreparabili e per far pensare che chi ti ammannisce il fervorino "offri tutto a Gesù" stia difendendo la miserabile piccineria del capo o capetto di turno. L'ubbidienza è una forma di amicizia che non può essere unidirezionale.

8) Uno dei grandi equivoci - dall'esterno come dall'interno - è stato il considerare il movimento poco più che un gruppo di auto-aiuto, un club di amiconi sorridenti farcito con le espressioni tipiche del don Giussani, un movimento ecclesiale indistinguibile dagli altri (nel contesto della strategia wojtyłiana di istituzionalizzazione dei movimenti).

9) C'è un solido motivo per cui l'archeologia ciellina - le fatiche dei primi anni del movimento, i primi drammatici episodi di cronaca, gli anni di Litterae Communionis divenuta poi Tracce, l'essere costantemente attaccati dalla stampa, perseguitati o almeno ossessivamente ostacolati da parroci e vescovi a suon di burocrazie, diffidenze, esasperati tentativi di normalizzazione - ha un irresistibile fascino anche per il giovanissimo che vi si cimenta per la prima volta. La cosa peggiore che potesse capitare al movimento è stata il lasciarsi docilmente ridurre ad una delle tante etichette nella bacheca diocesana, etichetta indistinguibile dalle altre. Cioè il lasciare che l'istituzionalizzazione divenisse in fin dei conti sterilizzazione e normalizzazione dietro il paravento di una presunta "ubbidienza", comodo alibi dei collaborazionisti pilatescamente bramosi di conservare il proprio piccin privilegio e di lavarsene le mani.

10) "Dentro di me" perché ormai nelle scuole di comunità le difficoltà che si possono discutere sono solo quelle eteree e fumose, quelle che hanno risposte generiche preconfezionate. Le difficoltà reali, quelle che richiedono uno sguardo leale, virile, onesto, provocano sarcasmi, occhiatine di sufficienza, "ma dai, su, ma dai..." detti o accennati, sollevano tutti i possibili velati sinonimi di "non hai capito niente" e di "sei il solito lamentoso" (segno inequivocabile di una SdC ridotta ad un "parlarsi addosso", ad un esercizio di retorica dei membri del club dell'alce). Ho sempre speranza di trasmettere ciò che penso senza dover usare parole ufficiosamente vietate.

11) La tentazione del lamentarsi e del dirsi "non sono più parte di questa storia" nasce tipicamente dall'equivoco dell'immaginare che il movimento, in quanto tale, debba fare e dire certe cose anziché certe altre. Ciò di cui parlo, la ferita dolorosa che ho dentro, non riguarda discorsi e attività, ma l'incontestabile riduzione del movimento (operata dall'alto) ad una struttura da "monetizzare" in senso politico ed economico (per di più in tempi di insignificanza politica e di crisi economica, cioè dimenticando che è stata la fede a produrre imprevisti risultati "politici" e dimenticando che è stata la fede a produrre impreviste generosità in materie "economiche"). Il ricordare che "Cristo c'entra con tutto, anche con la matematica" diventa una sterile predica se proviene dalla bocca di chi ha mostrato di aver a cuore più il foglio Excel delle proprie statistiche che Cristo stesso. Tant'è che quando a tradire fu Pietro, non potendo mai bastare neppure il suo più eclatante e sincero pentimento, ci volle l'intervento personale del Risorto per convincere gli Apostoli a dargli nuovamente fiducia come capo.

12) Non escludo di poter cambiare radicalmente idea in futuro. È lo stato attuale delle cose che non va bene. Non va bene perché contraddice ciò che ho incontrato - cioè non è ciò che ho incontrato. Perciò resto in attesa che una diversa guida (non solo in senso di uomini) mandi in soffitta quella attuale.

13) L'espressione "per imparare a dire Tu a Cristo" suona molto diversamente se detta da uno per cui sei solo una pedina. E che all'assemblea dello scorso 6 giugno, nel parlare del fondo comune, ha avuto l'improntitudine di accennare in questi termini alla quantità versata: «sappiamo bene che siete alle prese con lavori a volte molto precari, e anche per questo non insistiamo sulla quantità». Il sottoscritto, precario da una vita intera, è fiero di aver versato con gratitudine (peraltro ricevendone il "centuplo" ancor oggi). Ma questo aristocratico favore del non "insistere" sulla quantità suona piuttosto male. Era proprio necessario aggiungere quell'inciso? Se sì, significa che ai piani alti il fondo comune non è più visto come un dono tanto inatteso quanto gradito, non è più considerato l'imprevisto e generoso frutto della gratitudine di chi ha aderito alla Fraternità, ma come una specie di tassa di appartenenza: "orsù, sforzatevi di dare un po' di più, almeno chi non è precario: qua abbiamo un sacco di spese, ci servono più soldi!". Non è il genere di espressioni che si poteva udire da don Giussani.

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