venerdì 4 maggio 2018

Cinema coreano

Dopo un buon numero di film giapponesi e coreani mi sono convinto (ancora una volta) che noi occidentali - e specialmente noi italiani - semplicemente parliamo troppo. La lingua italiana, con la sua grammatica così complessa e così espressiva, dovrebbe teoricamente indurci a non sprecare parole. Coreani e giapponesi comunicano invece anche attraverso il silenzio di una appena accennata espressione del volto, o con quei mugugni come "hm", "eh", dai tanti significati e che perciò vanno decifrati dal contesto.[1]

Sono film che ovviamente non arrivano in Italia, perché qui è inutile commerciare qualcosa che possono apprezzare solo i palati fini, cioè quelli un filino al di sopra della bassissima media barbarica abituata ai già poco esaltanti preconfezionati hollywoodiani, sempre più indistinguibili dagli indiani di Bollywood e Kollywood e dalle pallide imitazioni italo/europee.[2] E che storcerebbe il naso a considerare attori con occhi a mandorla.[3]

Slow video, coreano. Quando ho visto il disegno che rappresenta i cinque amici (un rapporto imprevedibile), mi sono sentito uno di loro. Su una trama un po' infantile, un film che parla con silenzi e immagini, di una delicatezza sorprendente. Adrift in Tokyo, giapponese. Anche qui una trama esclusivamente dialogata e di immagini, dove silenzi e scenario costituiscono il modo con cui si racconta della crescita dell'imprevisto rapporto umano dei due protagonisti. La scena che più lascia a bocca aperta è quando la ragazzina li interrompe mentre battibeccano sull'uso di oyaji ("ehi, vecchio", grezzo modo di apostrofare il proprio padre).

Anche i loro film di intrattenimento, pur imitando i canoni occidentali, sono costruiti con garbo e delicatezza. The Priests, coreano: un film di esorcismi abbastanza semplice ma non offensivo verso la Chiesa.[4] A violent persecutor, coreano, azione e poliziesco, senza violenza inutile. How to date an otaku girl, giapponese: commedia sentimentale con sequenze da antologia del cinema.


1) Si può riconoscere in certa cinematografia americana, negli ultimi 20-30 anni, il tentativo di aggiungere questo ingrediente ai protagonisti. Parlare per immagini, per strozzati monosillabi, per silenzi. In oriente, per motivi che tuttora mi sfuggono, si comunica anche con il silenzio, come i monaci di una volta, laddove il sottoscritto sembra essere continuamente sotto pressione dagli interlocutori che vogliono continuamente conferme ("sì, certo, giusto, proprio così, esatto, e poi?, vero, ho capito...").

2) Un serio problema del cinema italiano da decenni a questa parte è che gli italiani non sanno più recitare - e ancor peggio va col doppiaggio, non solo per la seria difficoltà di adattare espressioni idiomatiche e citazioni più o meno dotte, ma per la rozzezza dei doppiatori. "Qui devi sembrare arrabbiata", e la doppiatrice adopera un tono di voce da ragazzina isterica viziata che prenderesti a pedate perché ti ha letteralmente massacrato la figura della protagonista che -nel copione originale- aveva un carattere appena timido e ansioso.

3) In compenso siamo talmente imbevuti di americanismo che troviamo naturale vedere grassi negroni in giacca e cravatta comandare sui bianchi o sparare loro addosso, e tutti - i primi come i secondi - dotati di nomi e pistoloni americanissimi. Persino nelle storiette composte da adolescenti con problemi di brufoli e pubblicate senza alcuna vergogna on-line, è raro trovar nomi italiani o personaggi poco americanizzati. Il razzismo americano, più il conseguente antirazzismo americano, sono approdati nella nostra "cultura" perché siamo stati una colonia non solo militarmente occupata, ma anche cinematograficamente.

4) Hollywood cerca a tutti i costi di celebrare il demonio, i coreani no. Indovinate perché.

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