Io invece sono a casa: durante e dopo la cena mi tocca sorbire il fracasso accuratamente amplificato. I lorsignori sul palco sono ben rappresentati da quella vignetta con le note musicali obese e ammaccate e le scritte “zum zam bam bum” che martellano le orecchie di Paperino. La distanza e l'amplificazione mi fanno giungere il frastuono già scremato alle basse frequenze, cosa che mi permette di distinguere con maggior chiarezza la spiritualità tribale di quella liturgia.
Fin da piccolo ho percepito l'aria liturgica di tali organizzatissime gazzarre paesane,[1] paragonandola all'attenzione e alla preparazione che meriterebbero invece le celebrazioni dei sacramenti. La tecnologia contenuta negli strumenti di amplificazione permette alle masse di lasciar affondare le loro anime nel rumore, laddove la Chiesa le elevava col silenzio, con l'arte sacra e con quelle distese di canto gregoriano.[2] Da piccolo mi imbarazzava vedere che quello stesso popolo cattolico avvertiva il bisogno di equilibrare la sublimità della liturgia con le celebrazioni tribali in piazza (magari proprio la stessa piazza dove sorge la chiesa in cui poco prima ci si comunicava con devozione).
Era imbarazzante, di domenica, pranzare dagli zii col televisore acceso che vomitava allusioni volgari, ciniche insinuazioni e perfidi luoghi comuni, proprio un'ora dopo aver tutti consegnato al Santissimo Sacramento una quantità di buoni propositi. Un milione di volte ho desiderato insorgere e sgridarli: ma un attimo fa non eravate in ginocchio davanti al Redentore? La comunione con Lui è già da dimenticare? Ma avevo paura di sentirmi dire: ma dai, per così poco? ma dai, non ti sembra di esagerare? ma dai...
Ma avevo ancor più paura che alzassero ulteriormente il volume. Sembravo l'unico che non sentisse il religioso bisogno di fracasso e trivialità, mi pareva di non aver posto nello stomaco per quei “bum bam bum”, quelle sconcezze e banalità seguite da applausi tutti uguali. E quelle rare volte che il parroco ci concesse la sua presenza a pranzo, sembrava sentirsi perfettamente a suo agio con loro e col televisore acceso, e forse proprio per questo era così tremendamente noioso nelle omelie e aveva tanto rispetto per quel gruppo di oche litigiose che ogni santa domenica e festività comandata gli starnazzava nella liturgia le solite trite canzonette anni settanta.
Non so dire come e quando mi fu concessa la grazia di stancarmi definitivamente di quella “spiritualità” mondana, oltre che la grazia di capire che da qualche parte doveva esserci una cristianità meno televisionata e più scossa dal Mistero. Nel frattempo mi sforzai di imparare a lasciar passare da un orecchio all'altro, senza transitare per il cervello, tutto quel frastuono, ardua impresa anche se ne ero stato sempre allergico.
Nell'incontrare il movimento di Comunione e Liberazione, la prima cosa che mi colpì fu proprio la liturgia. Silenzio e ordine, sublimità e chiarezza, partecipazione senza protagonismo. Tutti inginocchiati alla consacrazione (scena mai vista in parrocchia), nessuno che spalancava le braccia e le mani come un cretino al pater noster, nessun protagonismo, nessuna scenografia da Zecchino d'oro, nessun ridicolo cartellone coi caratteri cicciotti, nessun “gesto” imbarazzante, niente: solo una compostezza veramente liturgica, come se tutti fossero lì riconoscendo Cristo presente nel Santissimo Sacramento.
La cattiva interpretazione della presenza di Cristo “in mezzo a noi” è all'origine della trasformazione della liturgia cattolica in un attivistico cerimoniale, dove la “partecipazione” è confusa col darsi da fare, dove quell'in-mezzo-a-noi ha ridotto Cristo ad una sensazione di ottimismo. Ne ho avuto un ampio assaggio quando il celebrante mi sgridò perché stavo in ginocchio, postura che lui aveva interpretato come un “non partecipare”.[3] Inginocchiarsi, infatti, non è un gesto da sagra paesana, non è un gesto da trasmissione televisiva di intrattenimento della domenica pomeriggio. Ci si può inginocchiare compunti davanti al Signore, fisicamente davanti al Signore, non certo nell'assemblea sedicente “cristiana” impegnata a “celebrare”, dove la “sacra sinassi” fa il “banchetto escatologico” in un “clima di festa”... e guai a chi non canta, guai a chi non esibisce un moto di “festa”:[4] non sembrerebbe più un varieté pomeridiano domenicale.
1) Avevo goffamente tentato di partecipare talvolta a quelle celebrazioni, anche obbedendo al loro primo comandamento (quello di sospendere la ragione), ma il dogma del “stasera faremo pazzie” non mi ha mai riempito minimamente il cuore. Forse perché so che dopo ogni “stasera” c'è sempre uno “stanotte” ed uno “stamattina”.
2) Il boom delle canzonette “per la liturgia” nasce mezzo secolo fa come risultato della malsana idea che il popolo debba dare il suo attivo contributo allo spettacolino religioso autogestito. Non più il lasciarsi inondare l'anima, ma il darsi da fare per far sembrare “riuscito” lo spettacolino (cfr. ad esempio quel parroco che ha cambiato arbitrariamente la formula finale in: «la messa è finita: andate in pace dopo il canto»).
3) Il maggior numero di sgridate che ho collezionato dai preti riguarda il canto. Mi ripugna cantare certe emerite scemenze. Detesto aggiungere alla liturgia la mia voce per recitare insipidi minestroni di religiosità pseudocattolica. E dopo la prima e la seconda volta che sono stato beccato in flagrante reato di bocca chiusa, quel prete ha sempre guardato nella mia direzione tutte le volte che ammoniva: “cantiamo tutti insieme, su! tutti insieme”.
4) Dal film Buck Rogers: “Il re Ming ordina a tutti di essere felici. PENA LA MORTE”.
2 commenti:
Ma possibile che tutte le tue esperienze ecclesiali e non al di fuori di CL siano state negative? Non ti rendi conto che è proprio questo atteggiamento che vi rende insopportabili agli altri?
Caro mister Simpatia Sopportabile,
la mia "esperienza ecclesiale", se permetti, l'ho vissuta io, non tu.
Se poi tu leggessi anche il resto di questo blog, scopriresti che non ci vado tanto leggero neppure con CL.
Amicus Plato, sed magis amica veritas.
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