venerdì 28 giugno 2024

Sul ringraziare e sul pretendere

Un episodio di Arcipelago GULag: un detenuto, in un polveroso ufficio, in attesa che gli trascrivano il documento di fine pena, mendica delicatamente all'addetto di dimenticare una lettera. Cioè di trascrivere la sigla KRD (detenuto politico) anziché KRTD (detenuto politico trotkista). L'addetto ci pensa un attimo, e “dimentica” quella T, rendendogli così la vita parecchio meno infernale. Il beneficiato va via senza neppure un cenno di ringraziamento ma Solženicyn commenta: è un favore così grosso che è impossibile ricompensare adeguatamente chi te l'ha fatto, e chi te l'ha fatto lo sa e non avverte il bisogno di ricordartelo.[1] Tra uomini, dopotutto, non ci si perde in formalità e salamelecchi, e se l'addetto avesse accidentalmente sbagliato a danno del detenuto, sarebbe stato impossibile veder riconosciuti i propri diritti (era pur sempre l'epoca staliniana). Se io fossi stato al posto dell'addetto, avrei stroncato qualsiasi tentativo di ringraziarmi.

Quell'episodio lo ricordo perché una delle cose che più mi irritano è l'arroganza di chi invece dovrebbe provare sincera riconoscenza. “Ma io devo curare i miei interessi”, sbottò uno a cui stavamo già facendo un enorme favore ed a cui non si poteva concedere nessuno dei benefit aggiuntivi, ed i cui interessi cozzavano clamorosamente contro quelli dell'ente e anche del buonsenso. Non so cosa s'inventò col pavido pretino che dirigeva la baracca ma l'ebbe vinta. Appena possibile smisi di collaborare col pretino, perché è frustrante vedersi puntualmente scavalcare da ogni arrogante di passaggio.

Sì, c'è sempre da tener in conto la possibilità che qualcuno sembri arrogante solo per incapacità di esprimersi. O che non ha abbastanza fiato per i salamelecchi. Oppure che per stress pregresso non ce la faccia neanche a tacere. Ma dopo tante, troppe volte che hai rivisto quel pattern, non hai più l'ingenuità di voler dare sempre un'ultima possibilità a chi ti sta di fronte. Le delusioni e le frustrazioni forgiano il carattere, l'esperienza rende praticamente irreversibile quella forgia. Col risultato, ad esempio, di non aver remore a rimbrottare - anche rumorosamente - qualche anziano capriccioso e ostinato. L'età e le malattie non ti esonerano dal provare riconoscenza per chi ti assiste. Non voglio salamelecchi, basterà un virile silenzio - come in quell'ufficio russo dove una lettera T viene accidentalmente dimenticata -, e quel minimo sindacale di doverosa collaborazione, perché è fastidioso e frustrante cercare di aiutare chi rifiuta di essere aiutato. Tollero anche lo sterile lamentarsi ma non tollero i procurati allarmi. Non sono un giocattolo da usare come passatempo, non sono il telecomando che premi per sport anche a televisore spento, non stai collaborando se mi chiami d'urgenza mentre sto dormendo, mentre sto alzando la forchetta per il primo boccone, mentre sto letteralmente cagando, e poi non è per nulla urgente. C'è differenza tra una richiesta di aiuto e un pretendere intrattenimento.

Il pretastro in confessione mi ha detto di trattare quel nonnetto come Cristo. Mi è venuto un brivido, perché sembrava una di quelle affermazioni da predica, cioè “in teoria verissima, in pratica dubbia”.[2] Per fortuna sono anni che quando un confessore me la spara grossa ho capito che non devo impressionarmi ma solo sforzarmi di decifrare cos'è che aveva inteso.[3] Piegarsi all'arroganza non sempre è un gesto di umiltà. Abbracciare chi ti tratta da giocattolino è un atto che può riuscire a dei santi (abbracciateli voi coloro che si sono imposti come missione di frustrarvi il più sadicamente possibile, dopodiché potrete farmi la predica). Fra la santità e la pazzia il confine è labile, e se non riconosco il bisognoso in cui abbracciare Cristo avrò sempre il dubbio di star collaborando al sadismo altrui. Caritatevole sì, e con tutto lo sforzo possibile, ma fesso no. E “possibile” implica dei limiti.

È una società malata, che ha abolito la riconoscenza sostituendola coi formalismi, coi cartellini del prezzo, coi salamelecchi, con l'adulazione, ferma restando la salute necessaria per eseguire quei prescritti rituali. Per questo regna l'arroganza. Quando sono stanchi, hanno fretta, hanno bisogno di distrazione, o sono su di giri per qualsiasi motivo, scattano tutte le pretese, dimenticano totalmente la realtà, agiscono come bambini capricciosi a cui tutto è dovuto, tutto e di più, incluso il capire magicamente cosa hanno per la testa in quel momento e cosa avranno subito dopo. Per cui, quando possibile, rimprovero: “molla quel cellulare e pensa a guidare!”, sperando che la pubblica figuraccia gli sia più educativa che umiliante, prima che metta di nuovo in serio pericolo me o qualcun altro.


1) Solženicyn ama ricordare gesti di carità del genere da quell'infernale “arcipelago”.

2) Quante volte dall'ambone ci hanno altisonantemente comandato di “uscire a proclamare il Vangelo”, o di andare “dai nostri nemici a dire: ti perdono!”…

3) Aiuta molto il figurarsi mentalmente il professorino col dito alzato che inizia ogni frase con “sì, ma devi…”.

martedì 25 giugno 2024

Frattaglie - 27 - altri argomenti che non svilupperò

Dovrei girare un documentario sull'impegno (degno di miglior causa) che ci mette certa gente a finanziare la propria vanità.

Mammetta giuliva mi parla orgogliosamente dei due figli adolescemi. Il primo è peggio di un lumacone in pensione che spende la paghetta in videogiochi e il cui viaggio più lungo è dal divano al frigorifero. Il secondo è un iperattivo distrattone che si fa rubare il motorino, perde gli occhiali durante una festa, organizza una vacanza con un suo amico accorgendosi troppo tardi di scadenze e impegni, si procura una lesione muscolare giocando e gli resta un danno permanente (poca cosa ma permanente) perché sapeva che le terapie gli avrebbero annullato tornei e vacanze. Alla loro età anch'io ero disorientato. Anche a me l'unico orientamento fornito era “togliti dalle balle, economicamente e silenziosamente, ma togliti dalle balle”. Anch'io ebbi praticamente da mendicare una presenza adulta, una guida, un maestro, finendo per scegliermene io di volta in volta (nel branco e non) e cercando di attribuirvi una qualche importanza, finendo per dimenticarne una e passare alla successiva. Finché non mi accorsi che le cose migliori dei miei migliori amici avevano a che fare col movimento.

Alla fine si è avverata l'ennesima profezia di 1984: una canzonetta creata dall'intelligenza artificiale mi risulta orecchiabile e cantabile. In 1984 si immaginava di rimbambire i prolet fornendo loro romanzetti fabbricati automaticamente da macchine (e dunque, per estensione, canzoni e altre forme di entertainment, che neppure Orwell aveva saputo immaginare). Per natura, all'uomo piace sentirsi raccontar cose, cantar cose, suggerire immagini su cui fantasticare (ohibò, quanti libri sacri - e opere profane - sono stati a lungo trasmessi solo oralmente?).

Ricordavo una band metallara con capelli a cresta di pollastro e giubbotti gialli che a fine concerto lanciava Bibbie agli spettatori (non nel senso metallaro di scagliarle addosso ma nel senso di distribuirle gratis). Un'americanata, nel vero senso protestante della parola. Così, per scherzo più che per assaggio, ho cominciato ad ascoltare le trasmissioni di una radio specializzata in Christian metal. Il principio è questo: siccome i giovani sono convinti che per essere ribelli ci sia da ascoltare musica metallara (quella fatta di “uaaaargh!” e di voci cinque ottave sotto i piedi), allora qualcuno si dà da fare per ammannire loro musica biblically correct e moralmente accettabile (salvo il non proprio buon gusto delle schitarrate, delle urlate e delle voci roche). Tra gli slogan della radio quello che mi fa più ridere è: Powerful Music for a Powerful God, “musica potente per un Dio potente”. Powerful. Anzi, quell'altro: To blow the devil away, “per spazzar via il diavolo”. Suppongono cioè che il demonio disprezzerebbe quella musica solo per il contenuto dei testi. Che anziché essere ambigui, cupi e brutali come quelli delle varie branche di trash metal, death metal, ecc. (che lo sono perfino quando apparentemente cantano romanticherie), sono invece zeppi di citazioni della Bibbia, raccomandazioni morali e citazioni dottrinali.[1] Dubito, però, che ci siano state conversioni o almeno maggior rettitudine morale da parte degli ascoltatori.

Nel mondo fai-da-te americano riecheggia ancora nostalgicamente il nome degli Home Depot, catena di negozi rinomata non solo per la vastità del catalogo ma anche per il fatto di assumere gente “del mestiere” (idraulici, carpentieri, ecc.) e di pagarla bene[2] (non come un qualsiasi spostapacchi). E che quando lavoravano fra gli scaffali capivano cosa cercava davvero il cliente e lo accontentavano. Ma un bel giorno la catena si becca una grossa causa contro la discriminazione perché gli incompetenti e gli ultimi arrivati lamentavano di essere pagati meno degli esperti. Sorpresa sorpresina: nel 2004 l'azienda perde la causa, sborsa fior di milionate di risarcimenti, e per forza di cose cambia politica di assunzioni. Così da allora ad oggi il personale è fatto di incompetenti e di spostapacchi. Cioè gente che se ti vede con dei tubi di rame intesi a essere saldati non sa la differenza tra un saldature a butano e una torcia a propano.

Perché in 1984 c'era bisogno di trasmettere la “confessione” di Goldstein? Perché il grande pubblico è fatto principalmente di coglioni ai quali piace “svegliarsi al mattino e trovare tutto già pensato”. Cioè non usano la logica, non sanno riconoscere le evidenze, o meglio, rifiutano la logica e le evidenze perché hanno paura di dover cambiare idea. Hanno bisogno di un Super Cattivo da odiare, perennemente descritto come tale, possibilmente “reo confesso”. Dunque finché qualcuno non viene descritto come nemico dell'IngSoc, finché non si trasmette qualche spezzone video “incriminabile”, per l'italiano coglione medio non può essere “cattivo”, può essere al massimo criticabile o oggetto di motteggi. Cosicché dopo la dittatura del ConteDraghi, finché i due soggetti non andranno in tv a dire “abbiamo preso ordini dai Nemici del Popolo”, l'italiano coglione medio si rifiuterà categoricamente di riconoscere i fatti, le evidenze, le connessioni, persino la logica stessa (l'abuso delle “zone colorate” e dei lockdown, e tutti gli abusi collegati). Non a caso, di fronte a scenari di guerra che nessun sano di mente vuole, l'italiano coglione medio continua a cibarsi della campagna d'odio contro il Goldstein russo, senza capire minimamente chi e perché sta manovrando il branco di utili idioti.

Qualche tempo fa mi regalarono un tablet cinesissimo. Era in omaggio con un televisore; l'amico in vacanza dall'altra parte d'Italia compra il televisore in un negozietto ambiguo e al ritorno mi dona il pacchetto dicendo di avere già troppi tablet in casa. La prima sensazione fu di capire quanto siamo disperatamente dipendenti da cineserie e da infrastrutture cino-americane. Sulla confezione non c'era scritto nulla, né le caratteristiche, né il nome del modello, solo un'immagine generica. Alla gente non importa sapere quanta memoria ha, quanto spazio libero c'è il primo giorno. “Ci funziona Uozzappe? Si può usare per i Ticche Tocche? La didattica a distanza la fa?[3] Allora va bene”. Procedo a installare un po' di apps scoprendo che richiedono un cumulo di permessi assurdi. A cosa diavolo serve ad un'apps di previsioni del tempo (che non fa altro che presentare in modo carino i contenuti di un sito web) il permesso di usare fotocamera, storage, identità e quant'altro? A cosa diavolo servono i tremila permessi per un'apps che serve solo a pubblicare foto e spezzoni video? L'utonto queste domande non se le fa: “l'importante è poter vedere le signorinelle discinte”. O peggio, “la Pubblica Amministrazione ha deciso che devo fare tutto con l'apps ufficiale”. Naturalmente quasi tutte le apps sono imbottite di pubblicità fino all'eccesso, cosa che sul mio laptop non ero abituato a vedere (e pure sul vecchio cellulare ho preso tante contromisure). Il manualino, scritto in caratteri minuscoli, è completamente inutile (parla solo di apps da installare, cioè l'unica cosa che si può fare senza assistenza). Per capire le caratteristiche hardware ho dovuto installare un'apps apposita: sono piuttosto altisonanti (gigabyte di qua, gigabyte di là…) ma il tablet si comporta come se fosse un gadget di dieci anni fa, lento e farraginoso (chissà con cosa hanno simulato l'esistenza di tanta memoria). Inoltre, al tatto, fa rumore da incollaggio storto. Dopo aver installato un po' di apps,[4] una si rifiuta di partire e dice che il tablet non è sicuro perché risulta attivato il “root”.[5] Cosa che non avevo fatto, ma si tratta pur sempre di aggeggi cinesi, non sai mai cosa c'è dentro, né quanto a software, né quanto ad hardware: non mi fido ad inserirvi cose importanti e faccio bene, visto che due settimane dopo inspiegabilmente non partono più neppure i giochini. Riformattare è un'impresa titanica e ostacolata in ogni modo. Il tablet prenderà qualche mese dopo un urto leggero che distrugge lo schermo. Non vedevo l'ora di riportarlo all'isola ecologica. L'amico si meraviglierà che mi era durato così tanto.


1) L'aspetto divertente del protestantesimo è che ti mostra sempre cosa succederà quando il prossimo cattolico cercherà di inseguire l'applauso del mondo.

2) Si dice che una rinomata azienda dal nome francese e non proprio economicissima tenti maldestramente di fare lo stesso, ma tutte le volte che sono andato a prendere qualcosa ho incontrato solo degli “spostapacchi”.

3) Eh, si era in tempi in cui il boom della didattica a distanza provocò lo svecchiamento dei magazzini di tablet, con gran gioia degli importatori di cineserie.

4) Nel gergo moderno i termini commerciali, le loro sigle, i loro diminutivi, sono diventati parte del vocabolario comune. Apps! E subito ti si illuminano gli occhi, come di fronte ad una magica soluzione a mille problemi. Sei disperato? Apps! Sei povero? Apps! Sei senza femmine? Apps! Tutto è apps, signori.

5) Evidentemente il tablet aveva già il malware precaricato di fabbrica, e chissà quanta gente più ingenua di me c'è già cascata.

sabato 22 giugno 2024

Alto mare bergogliesco

Uno dei fattori della crisi profonda della Cielle è stato senza dubbio l'ascesa al soglio di Bergoglio.[1] Il papismo da tifosi a cui eravamo stati addestrati con successo in epoca wojtyłiana e con ancor maggior successo in epoca ratzingeriana si è inevitabilmente ritorto contro di noi proprio nel momento in cui Benedetto XVI abdicava, e col papa Buonasera la stangata è stata definitiva. Non era mai stato davvero necessario sfoggiare quel papismo per affermare la fiducia nel successore di Pietro, non lo era nemmeno quando Ratzinger era sotto il fuoco incrociato di amici e nemici.[2] Ma è come se ai vertici del movimento di Comunione e Liberazione fosse piaciuto imporre l'ostentazione della fedeltà al Papa come fattore identitario.[3]

Sul sito web della Fraternità è apparsa la lettera del Prosperi ricevuto dal Bergoglio sabato scorso. La sviolinata prosperiana tenta malamente di nascondere[4] l'atteggiamento da corrucciato burocrate a caccia del pelo nell'uovo che ha identificato i punti buoni del movimento e mira a distruggere esattamente quelli. Non riesco a credere che un'ossessiva insistenza sull'«andare fuori» o contro il «guardarsi l'ombelico» siano dettate da buona fede e animo di pastore,[5] perché la prima va a colpire quel curare la vita interna di cui il movimento ha sempre più bisogno da diversi decenni[6] (il trascurarla, infatti, equivale a ridurre il movimento ad un darsi da fare finalizzato a dimostrare che si sta facendo qualcosa) e la seconda è subdolamente intesa a colpire quelle caratteristiche peculiari che hanno sempre reso unica (nel senso di attraente) la proposta del movimento.[7]

La programmatica accusa di autoreferenzialità che ci piovve addosso dallo stesso Bergoglio fu una gratuita sferzata per noi piccoli - in quanto campata in aria - e una tutt'altro che carezza per giussanologi e cielloti, che avevano agguantato il grosso delle poltrone cielline e iniziato a rattrappire molte opere e attività del movimento. La fissazione bergogliana sulla “guida comunionale” menzionata nella lettera, però, svela ancora una volta l'intenzione di ridurre definitivamente il movimento a un club parrocchiale indistinguibile dagli altri. Il sottinteso è infatti che ciò che ti è accaduto - imbatterti esattamente in quelle persone, un avvenimento che riguarda la tua fede - va considerato tutto sommato irrilevante e staccato dalla vita del movimento. Non hai più una catena umana di fiducia, avrai solo una struttura a cui ti iscrivi per eseguirne le attività,[8] non hai più in primo piano volti amici, avrai solo un grigio consiglio direttivo che ti gira gli ordini da eseguire.[9]

Mi lascia diffidente anche l'espressione «la speranza è una virtù umile».[10] Diamine, ci voleva il successore ufficiale di Pietro per proferire una simile banalità?[11] Escludo che nella lettera sia menzionata come sintesi di un'indicazione più articolata (per nascondere qualche randellata di cui conviene tacere): sembra piuttosto la risposta ad un'implorazione del genere “santità, ci dica almeno una parola che dobbiamo scrivere la lettera-verbale di incontro e non possiamo sviolinare esclusivamente su incoraggia/stima/desiderava conoscere”.

Il movimento, insomma, è ancora in alto mare bergogliesco.

Accolgo l'obiezione: il movimento “quale”? Dovrei distinguere fra tre diversi movimenti. Le persone concrete in cui mi sono imbattuto io, e tutta quella vasta trama di rapporti di fiducia che con crescente gratitudine vi ho scoperto dietro.[12] Se Tizio, che ritengo avere fede, mi si dice molto colpito da Caio, del quale ne riconosce la fede, so di poter fidarmi. E se a sua volta Caio riconosce la fede di Sempronio… È letteralmente la fede che si diffonde “per contagio”, disvelando un popolo, una compagnia guidata al destino. Che convenzionalmente veniva chiamata movimento di Comunione e Liberazione[13] e che dall'esterno si vedeva organizzare Meeting, pellegrinaggi, vacanzine, gli esercizi spirituali, incontri, attività. Senza fretta, senza pressioni, soprattutto senza fregature, ché tornavamo sempre con una ricchezza in più in cuore. Perché era una compagnia guidata, non su “una” strada ma su “la” strada.

Il secondo movimento è quando “giussanologi” e “cielloti” hanno sempre più conquistato la sala comandi.[14] Per i primi il movimento è di fatto “un discorso sul movimento” (nonostante lo neghino),[15] per i secondi è l'etichetta di un darsi da fare (per dimostrare di esser bravi a darsi da fare). Non c'è voluto molto che pensassero di poter campare di rendita, politicamente, economicamente, ecclesialmente. E non c'è voluto molto perché arrivasse quell'annus horribilis in cui si consolidò il declino del movimento come lo avevamo conosciuto, mentre le sue migliori perle - come ad esempio il Meeting di Rimini - diventavano a poco a poco la caricatura che ne avevano sempre fatto i comunisti.

Il “terzo” movimento è quello che hanno in mente Bergoglio e i vescovi italiani: rimpolpare l'asfittica Azione Cattolica facendovi confluire le armate cielline con la loro capacità ed esperienza organizzativa (e di raccolta fondi). Immaginiamoci come passo successivo della “guida comunionale” un gruppone disomogeneo di responsabili di vari club ecclesiali riunitosi per far sembrare concreta l'ultima esternazione pontificia o l'ultimo insignificante slogan della conferenza episcopale. Con quello della mummificata AC che comunionalmente dice a quello di CL: “farete… sposterete… darete…”: e che rispondi, non vorrai mica essere poco “comunionale”? Su, datti da fare. Convoca i tuoi associati, scrivi una letterina per convincerli, dà ordine ai capetti di suonare la grancassa, applicando un adeguato numero di espressioni in forma impersonale e simulando un adeguato entusiasmo su una lista sconnessa di astrazioni farcite di versetti biblici tirati su per assonanza, per convincerli a darsi una mossa. Non è così che si fa anche nei consigli pastorali parrocchiali e diocesani dove tutti comunionalmente comandano e alla fine si approva solo quello che i soliti noti vogliono? Soprattutto, guai a te se non sorridi e applaudi entusiasta, sei uno che non vuole “andare fuori”, sei uno che “si guarda l'ombelico”.


1) Do per scontato che chi legge questi miei rant abbia in qualche modo a cuore le sorti del movimento e sia sufficientemente capace di distinguere fra affermazioni di carattere generale difficilmente attaccabili (come l'inarrestabile declino del movimento in epoca bergoglionica, sebbene coadiuvato da debolezze interne) e affermazioni che dipendono dalla mia esperienza personale ma che sembrano trovare sempre più riscontri.

2) Se passa l'idea che il Papa ha bisogno di una claque si fa largo anche l'idea che il Papa sia una specie di mascotte, di capocannoniere, di segretario del partito, non dell'uomo che per divina volontà si ritrova ad essere pastore del più delicato e vasto gregge immaginabile. Proclamarsi fedeli al Papa, quando vige il menefreghismo, è di fatto una risposta ad una domanda che non si pone, è percepito come un tentativo di sembrar virtuosi, cioè come un invito a sbadigliare o perculare. E quando poi arriva il papa Buonasera

3) Quando il don Giussani ribadiva la fedeltà alla gerarchia, aveva ancora presente l'ostentazione di infedeltà da parte di certi progressisti non ancora convertitisi al moderatismo clericale degli anni ottanta (quando da qualche cabina di regìa giunse l'ordine ai rivoluzionari di far meno caciara), la ribellione a Paolo VI da parte degli stessi modernisti che erano stati fin troppo accontentati, e probabilmente anche la scottatura delle tante dure ubbidienze e rospi da ingoiare che curie e vescovi avevano ostinatamente inflitto al sacerdote brianzolo reo di aver fondato - suo malgrado e senza neppure l'intenzione - un movimento. Finì evidentemente che certuni nel movimento ritennero d'uopo prendere alla lettera le espressioni del Giuss, anche dai pro forma destinati ai diffidenti curiali.

4) Ipotesi di complotto: anche Prosperi è stufo e pacatamente, ancora una volta, lascia trasparire l'assurdità della situazione. “Giusto cielo, ma guarda quante volte il Papa ci ha ripetuto la frase sull'Andare Fuori e sul non Guardarsi L'Ombelico, oh santo cielo”. Chi non è rincoglionito (né ipocrita) ha già inteso. Ma per credere a tale ipotesi occorre convincersi che ai vertici del movimento l'ordine implicito di scuderia sia quello di continuare a fare le candide colombelle in attesa speranzosa del prossimo pontefice (e sperare di non tornare ai fantozziani fasti carroniani). Ché sarà già una grazia se il prossimo Papa ci ignorasse e ci lasciasse leccarci le ferite.

5) Gli slogan degli ambienti gesuitici, “andare fuori”, “non guardarsi l'ombelico”, di sapore sessantottino e gesuiticamente interpretabili in due modi solitamente opposti, vengono infatti usati come un'amichevole pacca sulla spalla nei confronti di certi modernisti clericali e come una sferza nei confronti della Cielle. C'è una sola categoria di fedeli trattata peggio dal Bergoglio, ed è quella dei tradizionalisti.

6) Mi lascia sbigottito scoprire ciellini anche di lungo corso che ad oggi vivono i sacramenti come un'attività di cui farebbero volentieri a meno, o che trascurano la confessione da anni. Ho il sano terrore che il “patto col diavolo” della Cielle sia stato l'accettare supinamente la “comunione sulla mano” (introdotta dalla CEI nel 1989) come norma anziché come eccezione. L'ubbidienza ridotta a servilismo (con la scusa dello sbrigare le comunioni) faceva il paio con la fedeltà al Papa ridotta a papismo di etichetta.

7) “Guardarsi l'ombelico” è un dispregiativo che non ammette obiezioni, una sentenza data prima del processo, e incrimina previamente il presentare la propria esperienza. È un fare di tutta l'erba un fascio, è un presumere che l'intero movimento sia un “discorso sul movimento”. Ed è come quando quell'esimio prelato disse con sommo sprezzo verso una possibile causa di beatificazione, che il movimento non aveva bisogno di suoi santi.

8) Non si può negare che Wojtyła istituzionalizzando i movimenti li abbia castrati. Volutamente, temo, seppure troppo spesso con ottime ragioni. Bergoglio ha semplicemente portato alle estreme conseguenze quell'istituzionalizzazione, come se volesse dei cloni dell'Azione Cattolica, a guida “comunionale”, imbottiti di attività ma ultimamente un passatempo parrocchiale poco rilevante nella vita di fede di chi vi aderisce. Comico paradosso: la Cielle nasce dall'Accì e una cinquantina d'anni dopo dopo la Cielle indistinguibile dall'Accì non può far altro che confluire nell'Accì.

9) Alla fine della fiera l'autoridursi a eseguire ordini (attivismo e incontrini cultural-teologico-autopsicanalitici) è esattamente l'accontentare giussanologi e cielloti. Che però solo a quel punto cominceranno a capire di non essere più “speciali” ma di esser diventati uno dei tanti insignificanti club parrocchiali, che per di più avrà perso la sua autonomia organizzativa e la sua verve con cui attirava sempre nuova gente.

10) Gesuiticamente parlando, la speranza “virtù umile” si contrappone alla speranza basata su una “certezza presente”, che in quanto certezza è invisa al modernismo clerical-gesuitico oggi in vigore. Ricordo bene la fretta con cui un pregiato monsignore mi rintuzzò insinuando che l'esperienza non può dare certezze, quando per ingenua baldanza avevo menzionato la ragionevole certezza acquisita dall'esperienza. Proprio loro, i campioni del sospirante intimismo e del sottinteso che alla fine della fiera “va' dove ti porta il cuore” (cioè “scegliti ciò a cui vuoi credere e sei a posto”), hanno quel momento di reazione pavloviana in cui “esperienza” e “certezza” suonano loro come un grave pericolo.

11) Per tutta una vita cristiana ho dovuto sopportare logorroici chierici parolai che proferivano instancabilmente petalose banalità e giocavano con le parole del lessico cattolico un po' come bambini che infilano tre o quattro parolacce nella stessa frase convinti di aver ideato l'imprecazione del secolo. Immaginate la mia faccia alle prime scuole di comunità e Meeting di Rimini, quando sentivo parlar chiaro e senza melensaggini sulle questioni fondamentali della fede.

12) Cosa vuol dire essere “ciellini”? L'appartenenza al movimento di Comunione e Liberazione comincia non perché decidi di aderire ad un club ma perché i tuoi migliori amici sono coinvolti in quella genuina esperienza di fede al punto che nel tuo piccolo non riesci a non desiderare di vivere la stessa cosa. E col passare del tempo scopri che i loro migliori amici vivono quella stessa fede, e così pure gli amici degli amici degli amici… e capisci cosa significa quell'espressione “compagnia guidata al destino”. Per indicare quella cosa dici “amici”, se proprio c'è bisogno di esser formali usi qualche timido termine come “il movimento”, “la fraternità”, perché non hai bisogno di un'etichetta, perché sai che non è banalmente uno dei tanti club parrocchiali che s'infervorano attorno al logo colorato del proprio gruppo, bramosi di dimostrare di essere significativi nella Chiesa o almeno utili a qualcosa. Quel “movimento” riguarda la tua vita di fede, non un darsi da fare, non un impegno culturale (sebbene nel movimento non manchi). Non si diventa ciellini svegliandosi al mattino con la voglia di una tessera in più. Ci si accorge di essere ciellini tardi, quando si viene accusati di esserlo, quando quei volti che rappresentano la tua fede vengono accusati di essere tali, quando qualche clerical-curiale insiste a volerti apporre un'etichetta clerical-politica…

13) All'interno della Cielle praticamente nessuno usa tale termine - e neppure “Cielle” e simili. Ci si è sempre detti “il movimento”. Non c'era mai stato bisogno di etichettarsi.

14) Le prime crepe si son viste col don Giuss ancora vivente. E lui stesso in diverse occasioni - come dopo il misero fallimento del referendum contro l'aborto del 1981 - ebbe a desiderare di ricominciare tutto daccapo, di essere solo “in dodici”. In quanto movimento - per definizione “qualcosa si muove”, non è una cosa statica, c'è chi entra, c'è chi esce -, tanti si fanno facilmente sedurre dalle sirene mondane. Dalla politica, dalla “giussanologia”, dall'attivismo… Evidentemente nemmeno Giussani riuscì a tenerli a bada.

15) Le scuole di comunità e assemblee, ridotte troppo spesso ad un esercizio stilistico di oratoria, alternano omelie farcite di gergo ciellino (“lo sguardo leale sul riaccadere di una presenza che si imbatte nell'esperienza che si gioca nell'amicizia senza la scontatezza…”: termini che una volta ci erano necessari per farci capire, non per abbellire discorsi) a sensazioni vagamente intimistiche (“ieri mi colpiva la notizia al telegiornale”, è sempre uno “stamattina” o “ieri” - al limite nascosto dietro un “ultimamente” -, mai qualcosa dei precedenti 7-15-30 giorni), sono quanto basta per riaffermare, con don Giussani, che se la scuola di comunità non ti fa crescere è inutile, e che l'autoincaricato di martellarti a marcar presenza è uno scocciatore.