Qualche tempo fa partecipai in parrocchia (come claque) ad un incontro “vocazionale” in cui i seminaristi presenti raccontavano qualche episodio significativo della propria vocazione. Subii un interminabile diluvio di cretinerie: raccontavano di sensazioni oppure elencavano attività, ferma restando la loro disarmante incapacità di esprimersi, infondendo efficacemente l'idea che il sacerdozio sia una roba per stupidi svitati.[1]
I preti non solo facevano finta di non notare quell'incapacità (limitandosi, nei casi peggiori, a ridurre a categorie da psicologia spicciola gli interventi più maldestri), ma addirittura elogiavano senza sosta la raffica di cretinerie in quanto spontanea (confondendo la sincerità con lo spontaneismo).[2]
Non c'è da meravigliarsi che quegli stessi soggetti disprezzino Comunione e Liberazione: uno dei pilastri fondamentali del movimento è quell'accanita insistenza nel riconoscere le proprie domande più elementari, nel saper dare un nome alla propria sete di verità e di compiutezza, nel prendere sul serio la propria vita e la realtà concreta, nell'identificare onestamente (e senza far prediche) ciò che ha fatto crescere la propria fede.
1) La capacità comunicativa non è realmente essenziale per una vocazione sacerdotale. Un candidato capace di esprimersi quel poco che basta per amministrare i sacramenti può già essere un buon sacerdote: al resto penseranno gli altri. Ma -ahinoi!- oggi si confonde la capacità comunicativa con la capacità di dire banalità politically correct in modo brillante durante le omelie...
2) L'epidemia dello spontaneismo nella Chiesa cattolica andrebbe combattuta con misure drastiche. È credenza comunissima, ai limiti del dogmatico, che il voler dire qualcosa implichi l'aver qualcosa di concreto da dire. Non c'è solo il problema dei soggetti che intendono arieggiare l'ugola mettendosi al centro dell'attenzione; ci sono anche quelli che pur desiderando dire qualcosa, sono alquanto incapaci di esprimersi (o peggio, adoperano duecentonovanta parole laddove ne bastavano quattro). Così assemblee, riunioni, incontri, diventano una pena da purgatorio. Tutto questo per la fissazione del dover “dare la parola a tutti”. Tale epidemia ha infestato anche la liturgia: dal 1965 è prevista la “preghiera dei fedeli” che la Chiesa aveva saggiamente abolito fin dalla notte dei tempi.
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