lunedì 1 dicembre 2014

Non c'è più spazio per te

Il 23 dicembre ebbe la temuta conferma: il contratto non era stato rinnovato, da fine anno non ci servi più. Se ne tornò nell'open space con un'espressione funerea in volto, nessuno gli fece domande: lo sanno che il mercato del lavoro funziona così, lo sapevano che qualche altra risorsa non sarebbe stata confermata, da qualche settimana si erano pian piano segretamente preparati all'eventualità di fare a meno di lui. Così, passò tutta la giornata di lunedì a perdere tempo con videogiochino del solitario e altre amenità: nessuno ebbe da ridire, un po' per umano rispetto del dolore, un po' per timore delle imprevedibili reazioni di uno che evidentemente suda fulmini, e un po' anche perché nessuno può essere certo che a fine 2014 non toccherà pure a lui.

Anche il venerdì successivo, suo ultimo giorno di lavoro, riuscì a perdere tempo per tutta la giornata. Qualcuno, più per abitudine che per reale necessità, gli chiese di verificare un nonsocosa da un nonsodove, ma lui evase la domanda: era lì ormai per marcare presenza, non per lavorare, era lì per non accendere inutili fuochi in una foresta già incendiata. Ed era ancora giù di morale, perché a versare sale sulle ferite ci si era messo il parroco con quella prevedibile e noiosissima omelia di Natale sulla bontà, sulla carità, sulla fratellanza, sul perdono e soprattutto sulla raccolta straordinaria di fondi in cui esercitare la massima generosità perché “stavolta è davvero molto importante”. Mentre ancora il parroco parlava, lui ha tirato fuori la busta dal taschino, ci ha tolto le banconote che aveva messo prima di Natale e l'ha consegnata vuota, sapendo che gli sguardi corrono rapidi e le voci ancor più rapide e sperando che il parroco abbia il coraggio di chiedergli personalmente cosa c'è che non va.

Speranza vana. Uno dei drammi della Chiesa che ama definirsi vicina alla gente è quello di non capire altra “gente” che i cattolici da salotto con la pancia piena. Infiniti discorsi sui poveri e incapacità di riconoscere la povertà, così come infiniti discorsi scientifici sul pelo del leone ma incapacità di riconoscere un leone vero nel vederlo tutto intero. Quella Chiesa che si vergogna di dire chi è Cristo ha finito anche per allontanarsi dalla vita dell'uomo. Neanche cinquant'anni fa il parroco era l'uomo “vissuto”, l'amico “acculturato”, il confidente che ti capiva anche quando non parlavi. Era l'uomo che sapeva meglio di te come si tiene in piedi una famiglia, come si resta a galla nonostante la crisi economica, come si fa a far quadrare le partite doppie senza far peccato mortale, era l'uomo che interpellavi quando volevi avere la certezza sul tuo matrimonio o su quello di tua figlia. Era l'uomo delle certezze della vita.[1]

Probabilmente uno degli indicatori più graffianti dello stato in cui versa la Chiesa oggi è l'insensibilità dei preti verso quel genere di drammi, di fronte ai quali elargiscono frasi di circostanza - cioè sale sulle ferite - o patetici tentativi di elemosina - cioè altro sale sulle ferite.

Un clero che parla sempre di pace e bontà senza precisare i termini del peccato e della grazia, che commenta sempre gli stessi triti e ritriti brani biblici, che racconta sempre le stesse cose, e che continuamente chiede soldi per gli obiettivi più svariati riuscendo a non vedere (o peggio a banalizzare) i drammi personali dei fedeli che gli sono affidati, non dovrebbe affatto meravigliarsi di ritrovarsi le chiese sempre più deserte.


1) Il nonno lo ricorda bene. Il parroco era forte di mani e di dottrina. Lo imbarazzava solo un gesto, quello del dover chiedere soldi, che faceva il meno possibile: e più lo imbarazzava e lo evitava, e più soldi misteriosamente gli piovevano addosso. Sapeva riconoscere i poveri dagli accattoni, e perciò le sue (relativamente) segrete elemosine finivano inspiegabilmente nelle mani giuste: lo si notava da come fruttavano.

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