mercoledì 29 ottobre 2014

Dinamiche del mondo del lavoro nell'Italia neosovietica

Non voleva fidarsi dei risultati, non poteva. Voleva una Certificazione con la C maiuscola, un documento a prova di bomba. E così, dopo una imbarazzante sequenza di telefonate a lupi di volta in volta più affamati nel sentire belati di pecora imploranti aiuto, finalmente imbrocca il Professionista Certificatore. Che -bontà sua- telefonicamente gli dice che non si può mettere per iscritto una certificazione se non accollandosi tutte le responsabilità e bla bla bla. Tradotto in italiano: mi paghereste davvero a peso d'oro?

Nel mondo del lavoro i livelli di paranoia sono saliti a vette sovietiche. Non si lavora più sulla fiducia ma sui documenti di certificazione (vere e proprie liberatorie, vere e proprie compravendite di assunzioni di responsabilità). Non c'è più la passione per il proprio lavoro ben fatto, ma il bìsniss-plènn da seguire: il sacro Business Plan da effettuare alla lettera, ideato nei minimi dettagli dalla religione del Faremo Soldi a Palate. Il lavoratore - anche progettista, anche manager, anche commerciale - ridotto ad ingranaggio di una macchina, prontissimo a scaricare la responsabilità ai livelli superiore e inferiore, a seconda delle necessità. Anzi: prontissimo a fare compravendita di responsabilità.[1]

Nelle aziende italiane, attaccate da sei mafie (e non per modo di dire), a guidare il lavoro è il panico. Non esistono piccoli timori e nemmeno grandi paure: esiste solo il panico. Che da una parte è generato dal pressappochismo (per esempio: vita, morte e miracoli di un progetto affidati alla mente di una singola persona: bus factor uguale a uno)[2] e dall'altra genera il pressapochismo (qualsiasi soluzione diventa accettabile se permette di sedare il panico fino a domattina). Perciò qualsiasi piccolo intoppo scatena il panico: ma perché non me l'avevate fatto sapere prima? ma com'è possibile che si sia guastato? ma suo figlio non poteva ammalarsi la settimana prossima? e ora come faremo?

E così il leone che nella Grande Riunione Strategica ruggiva “faremo soldi a palate!”, improvvisamente si trasforma in pecorella belante che chiede aiuto (sì, ma chiede aiuto con lo sconticino, non è mica disposto a prendere atto della realtà) e telefona uno ad uno a tutti i lupi che anche solo per sentito dire potrebbero far qualcosa. Anche quelli di cui aveva perso i contatti da vent'anni. Ma la crisi economica c'è anche per i lupi, che perciò non esitano a chiedere pagamenti a peso d'oro prevedendo lo sconticino. Talvolta va loro bene (vendendo il proverbiale cannone per ammazzare l'uccellino), talvolta va maluccio (il prezzo esoso si rivela in realtà insufficiente a coprire i veri costi di intervento).

Nelle aziende italiane, vessate da tutto ciò che i progressisti chiamano “medioevo” (cioè tasse assurde, giustizia ingiusta, ruberie diffuse, legalità staliniana, burocrazia asfissiante, approssimazione selvaggia...) si fanno sforzi titanici per restare a galla ma non si cambia mentalità. Alla devastazione dell'industria e delle piccole e medie imprese ha contribuito la mentalità (di importazione americana, e più precisamente di stampo protestante) del ridurre il lavoro ad una merce,[3] ad un elenco di operazioni da eseguire per fare soldi a palate (che per grandissima parte finiranno in tasche altrui),[4] lasciando perdere ciò che non porta “convenienza” (per cui depositi imbrattati da vandali e carri merci arrugginiti conservano le loro brutture per decenni, gli strumenti di lavoro sono insufficienti, mal tenuti e male usati, non si investe sulla formazione dei propri dipendenti perché sembra uno spreco di tempo e denaro...) Dunque la dignità non ha posto, la passione è scomparsa, la creatività è svanita (sostituita dalla ricerca esasperata di una “nicchia di mercato”[5] in cui porre i propri prodotti e fare soldi a palate in quel presunto lasso di tempo di cui concorrenti e imitatori hanno bisogno per “adeguarsi”).

La dignità del lavoro, un concetto esclusivo della mentalità cristiana, deve far posto al mercato: “qui non si fa beneficenza”, se sei anche solo parzialmente incapace o parzialmente inutile dobbiamo trovar modo di mandarti via (e se non lo facciamo è solo perché per sindacalismi e burocrazie ci costa meno tenerti qui). “Tengo famiglia”: per cui non importa che un lavoro sia fatto bene, ma solo che sia fatto quel tanto che basta per incassare soldi entro fine mese, ché bisogna contentare non solo le sei mafie ma anche i vizietti personali come le droghe legali e le tasse indirette (l'abbonamento per le partite, lo zainetto griffato ai figli, la multa per eccesso di velocità, l'internet sul tablet per il music store...) oltre che gli onnipresenti imprevisti.

Di fronte a questo italico spettacolo, la reazione più sovversiva in assoluto è l'edificazione di un monastero.

In un monastero si lavora non per le scadenze, ma per la gloria di Dio. Non per il guadagno, ma per la bellezza. Non per necessità, ma per passione. Non per le esigenze di mercato, ma per dare fondo a quella sana creatività che, in quanto dono di Dio, è per ciò stesso destinata a dare frutto.

Non a caso la scienza è nata nei monasteri, l'arte è fiorita nei monasteri, il diritto è opera dei religiosi,[6] il buon gusto è invenzione dei monaci. Le più bizzarre “scienze” profane (dal galateo al far di conto, dall'agricoltura all'astronomia) devono parecchio a questi consacrati che sapevano vivere, godendosi la vita immersi nella bellezza (per esempio con quella musica portata dagli angeli), e soprattutto sapevano lavorare, mostrando con l'esempio - ancor prima che con le parole - il lavoro inteso come prosecuzione dell'opera creatrice di Dio, come espressione del meglio del proprio io, come avente dignità. E mentre nel resto del mondo si sgozzavano innocenti per ingraziarsi divinità come serpenti piumati, pianeti in congiunzione, draghi sputafuoco che nessuno aveva mai visto di persona, lì in quella terra tappezzata da monasteri fiorivano arti, scienze, diritto, tecnologie, e una concezione della vita accettabile anche per il restante novantanove per cento della popolazione.

Il detenuto Ivan Denisovic', pur sapendo che quel muro che stava costruendo sarebbe stato abbattuto immediatamente dopo essere stato completato, si dedicava alla sua costruzione con la massima perizia possibile. Il suo era il grido disperato di un io schiacciato, una vera e propria apologia dei monasteri, ancor prima che della dignità del lavoro.

I monasteri sono evidentemente un dono di Dio. Un dono che quelle Alte Sfere terrene[7] si ostinano a rifiutare anziché desiderare. Il più schiacciante indizio della fine di una civiltà è l'assoggettamento della casta sacerdotale alle leggi del mercato, alle dinamiche del lavoro come merce, come sopra illustrato: alla rinascita, cioè, della superstizione e dello schiavismo sotto nuove forme e con diversi nomi.[8] Siamo rimasti pochi Ivan Denisovic' sparpagliati e isolati, a domandare umilmente altri operai per la messe: cosa che ha tra le sue conseguenze indirette la chiara percezione della dignità della vita e del lavoro.


1) Piccolo aneddoto. Una Grande Azienda Italiana dismette un certo numero di macchine che hanno passato abbondantemente il ciclo di vita previsto. Una Grande Azienda Non Italiana le “ritira” a prezzi ridicoli, vi dà una sommaria ripulita, vi appiccica la propria etichetta e ci scrive Garanzia X Anni (dopotutto il costo per sostituirle con altre “ritirate” è bassissimo) e le rivende a metà del prezzo di quelle nuove. Una Media Azienda Italiana le compra, ci aggiunge il proprio marchio, e le rivende alla Grande Azienda caricandoci un venti per cento in più, e così le macchine dismesse rientrano con tutti gli onori nella Grande Azienda. Il responsabile della sala macchine si lamenta, ma il suo diretto superiore - appena omaggiato di varie regalie dalla Media Azienda - gli risponde che tutto va bene e che sono regolarmente coperte da garanzia.

2) Nel gergo business americano il bus factor (“fattore autobus”) corrisponde al numero minimo di dipendenti che con la loro improvvisa morte/inabilità/indisponibilità (dovuta per esempio all'essere investiti da un autobus) determinano la paralisi totale di un progetto o addirittura il dover buttar via tutto (cioè l'aver sprecato soldi e tempo e risorse fino a quel momento). Sul bus factor incidono evidentemente anche altre circostanze (come ad esempio le penali da pagare in caso di ritardi). Il bus factor uguale a uno, cioè il più basso, significa che basta un solo dipendente infortunato (o anche passato ad altro lavoro, o semplicemente colpito da problemi di salute o familiari) per mandare tutto all'aria.

3) Nel gergo americanoide in voga nelle aziende si parla di lavoro come commodity. Suggerisco un'occhiatina alle vignette de il consulente imbruttito.

4) Il responsabile si giustificava: abbiamo fatturato 5000 spendendone 8000 ma adesso abbiamo un'entratura... Quale dolce parola! Un'entratura, cioè la possibilità di fare improbabili futuri lavori presso lo stesso cliente, dai quali recuperare la perdita già subìta e su cui toccherà pagare gli interessi alla già furiosa banca...

5) Per “nicchia di mercato” generalmente si intende un nome altisonante affibbiato a qualcosa che i concorrenti non sono al momento pronti a vendere.

6) Fu la famigerata Inquisizione - cioè i domenicani - a inventare i processi equi, l'avvocato d'ufficio, il garantismo “moderno”.

7) Gli eventi del pontificato bergogliano - tra cui la sorprendente persecuzione dei Francescani dell'Immacolata - destano allarme anche nei confronti delle Alte Sfere ecclesiastiche.

8) Del Medioevo, tutto ciò che comunemente si disprezza è invece straordinariamente descrittivo della società di oggi. La schiavitù ha solo cambiato nome: oggi abbiamo fisco, burocrazia, prepotenze istituzionalizzate...

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