Butto sul blog anche questi altri vecchi pensierini sparsi e disordinati, visto che non c'è tempo per allungarli fino a diventare una pagina intera.
Quando si tratta di obbedienza, è molto facile e comodo accettare l'idea di spendersi al massimo per un progetto che suona come grandioso. È come se con l'obbedienza si entrasse in possesso del progetto (questo è vero anche quando i termini obbedienza e possesso sono da intendere in senso cristiano). Lo squinternato operaio che sciopera per diritti altrui è mosso pressappoco dalla stessa determinazione del novizio che si fa in quattro per il superior maggiore mollaccione. La differenza tra idea e ideale sta nel fatto che l'idea è una fabbricazione umana.
Matteo si lamenta: nessuno studiava, eppure bocciavano solo me. Nessuno ci fa caso: sembra una lamentela così normale, così ordinaria, così sacrosanta... Eppure, seguendo la stessa logica, si potrebbe dire: siccome penso che tutti siano ladri, allora è stato ingiusto punirmi quando ho rubato io.
In autobus parlano di vacanze. Sciorinano nomi di città straniere come se stessero risolvendo un cruciverba a tema geografico. Parlano di paesaggi cittadini, fingendo di non sapere che si tratta solo di cemento, vetri, calcestruzzo, laterizi, tubi al neon. Vedere nuovi posti significa più o meno guardare cementi e insegne luminose, addentrarsi da clienti nel mercato del turismo che ti vende un panorama (magari persino naturale). Al fondo c'è una curiosità passeggera, una vanità: tant'è che il turista, al ritorno a casa, ha bisogno di riposarsi.
Comprare regolarmente la confezione di caramelline di cui vado ghiotto serve perché la tentazione della gola è (in questo caso) più blanda della tentazione della superbia (mi sentirei più santo di un rigoroso monaco stilita del deserto se mi accorgessi di riuscire con la mia sola forza di volontà a fare a meno per un mese di quelle caramelline).
Da quando ci si è “eroicamente” liberati dei lacciuoli della religione, finalmente si possono elargire sentenze dogmaticamente definitive come questa: “la paura di amare a volte è la causa della fine di una storia”. Siamo nell'epoca degli “a volte”, nell'epoca del “tuttavia”, nell'epoca del “ma comunque”, nell'epoca del “ma anche no”. Nell'epoca in cui meno si ha da dire e più si parla (e stampa). La lingua italiana è affondata sotto un diluvio di ma, tuttavia, però: ad ogni espressione deve necessariamente corrispondere una frase che la controbilanci.
Per andare precisi, sulle cose della fede, bisognerebbe parlare solo per dogmi. Ma la lingua parlata non è precisa come la lingua della matematica. E l'animo umano, statisticamente, è poco propenso ad accettare correzioni precise e fondate.
Si lamentano dei loro acciacchi, come se fossero “punizioni” inflitte da un Dio vendicativo e pignolo, dimenticando che sono invece le scientifiche conseguenze del peccato originale (l'inimicizia col Creatore implica necessariamente l'inimicizia col creato: sudore della fronte, malattie, travaglio del parto e tutto il resto). Solo chi ha gli occhi bene aperti sull'infinito può arrivare a capire che la malattia è un'opportunità e che l'opportunità va sfruttata e che per farlo non bastano logiche tipicamente umane. L'alternativa è maledire tutto e tutti e sfruttare la propria condizione per incensare il proprio ego.
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